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Enrico Berlinguer, memorie dell'autista: "Le Brigate Rosse
lo pedinavano". "D'Alema? Non gli piaceva, troppo presuntuoso"
Per 15 anni è stato l'ombra del segretario del Pci. Alberto
Menichelli, 85 anni, ha scritto un libro di memorie, lui autista di Enrico
Berlinguer. E ricorda pezzi di storia e ricordi di anni trascorsi al suo fianco.
ALDO MORO. "Sono le 2 e mezza di notte. Per la seconda volta in pochi giorni
ho portato Berlinguer all’appuntamento con Moro, a casa di Tullio Ancora, vicino
a piazza Istria. È la primavera del 1978, si tratta la nascita del primo governo
appoggiato dal Pci. Un compagno accende la lucetta sopra l’ingresso: è il
segnale che il capo sta per scendere. La portiera è già aperta. Mi volto, ma sul
sedile non vedo Enrico; vedo Aldo Moro, che è salito per sbaglio sull’auto del
segretario del Partito comunista. Gli sorrido e gli dico che si è sbagliato.
Moro chiese scusa mille volte. Dopo raccontammo la scena a Berlinguer, che si
divertì moltissimo...".
Ed ancora: "Il 9 maggio mi telefonò: “Abbiamo avuto una segnalazione. Vai in
via Caetani, c’è un mio amico che abita al primo piano: sali da lui, affacciati
alla finestra e dimmi cosa vedi”. Gli descrissi la scena del ritrovamento del
corpo. A un tratto sentii che non parlava più: mi aveva attaccato il telefono,
come non aveva mai fatto. Era disperato: capiva che con Moro era morta la sua
politica».
LE BRIGATE ROSSE. "Con il maresciallo Leonardi, il caposcorta di Moro,
eravamo amici. Ci invidiava le auto blindate, che al presidente della Dc erano
state negate. Berlinguer aveva avuto la prima macchina blindata d’Italia: gli
operai di Pisa ci avevano dato il vetro, i compagni di Roma avevano messo le
lastre d’acciaio alle portiere. A lui non poteva accadere quel che accadde a
Moro: oltre alla blindata e all’auto della polizia, c’era sempre un’altra
macchina del partito, ogni volta diversa per confondere le Br, che ci precedeva
o ci affiancava. E se fossero riusciti a rapirlo, i compagni l’avrebbero
trovato, avessero dovuto setacciare tutta Roma. I poliziotti di scorta erano
iscritti al partito: uno di nascosto, l’altro apertamente. Lo trasferirono a
Udine per punizione. Allora intervenne Pecchioli: “Almeno mandatelo a casa sua”.
Così fu trasferito a Lecce. Comunque le Br ci pedinavano. Nelle loro carte
avevano annotato le abitudini di Berlinguer, compresa la sosta ogni sera in
latteria per comprare un litro di latte. Una volta gli chiesi: “Ma che te ne fai
di tutto ‘sto latte?”. Sorrise: Il frigo di casa è sempre mezzo vuoto".
UN UOMO SORRIDENTE "Enrico sorrideva spesso. Non era affatto triste. Gli
piaceva scherzare. Una volta stavamo andando in Calabria, e ci fermammo a pranzo
a Lagonegro. Lui cominciò a fare palline con la mollica di pane e a tirarcele;
scoppiò una battaglia. Mi prendeva in giro perché avevo paura dell’aereo, a ogni
decollo mi chiedeva: “Hai messo il paracadute?”. Canzonava un uomo della scorta,
Righi, partigiano di Carpi, che adorava il lambrusco; gli diceva che era la
coca-cola italiana, “vuoi mettere il Cannonau? Quello sì che è un vino!”.
IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO. "Al partito sacrificò tutto, anche la vita
privata. Eravamo sempre insieme, pure a Natale, che passavamo alle Frattocchie.
Stavamo giocando a tombola, e lui gridò esultante: “Ambo!”. I bambini lo presero
in giro: “Cosa vuoi vincere con un ambo?”.
BETTINO CRAXI. "Il rapporto con Craxi all’inizio non era così cattivo come
dicono. Con il suo autista, Nicola Mansi, eravamo amici, anche se lo prendevo in
giro perché guadagnava più del doppio di me. Dopo le elezioni dell’83
accompagnai Enrico con Chiaromonte da Craxi: all’uscita era soddisfatto, sperava
di aver gettato le basi per un’alleanza. Invece Bettino chiuse l’accordo con la
Dc. E al congresso di Verona ci tese una trappola: mentre gli altri ospiti
passavano di fianco al palco, noi dovemmo attraversare tutta la sala, in una
selva di fischi e insulti. Io ero furibondo, lui non batté ciglio».
LA MORTE "Quando mi dissero che era morto, scoppiai in un pianto convulso. Mi
tornò in mente la nostra vita insieme: quando arrivavo a casa sua a portargli i
giornali alle 7 e mezza e lui mi apriva in pigiama; la volta che in treno ci
accorgemmo che aveva una scarpa diversa dall’altra; quando lo vidi seduto per
terra nel salotto tra un mucchio di libri (“ma che ci fai lì?”; “sta zitto, ho
nascosto 50 mila lire dentro un romanzo e non ricordo quale”); la volta che si
mise a giocare a pallone sul piazzale della Farnesina con il figlio Marco e i
suoi amici, si fermò una Fiat 130, si abbassò il finestrino: era Moro, che
rimase incuriosito a guardare Berlinguer battere un calcio d’angolo. Fu
Lauretta, la figlia più piccola, a consolarmi. Ancora oggi voglio bene ai figli
di Berlinguer come fossero miei".
I DIFETTI "Certo che aveva difetti. Ne aveva tantissimi. Ad esempio era
pignolo: non l’ho mai visto parlare a braccio, lavorava ai discorsi per intere
notti. E trascurato: non si pettinava mai. Quando entravo in direzione ad
avvisarlo di una telefonata, a volte interrompevo liti furibonde. Lui dava
ragione a tutti, ma decideva da solo. Era amico di ciascuno e di nessuno".
LUCIANO LAMA "Con Lama non si amavano: una volta a Torino un corteo operaio
passò sotto il nostro albergo, Lama gli disse di non scendere, Enrico non gli
diede retta".
GIORGIO NAPOLITANO "Rapporti normali, ma lui stava con Amendola, che era il
vero avversario interno di Enrico; mentre con Ingrao andavano d’accordo, il
fratello Ciccio Ingrao era il suo medico. Fu lui a consigliargli di bere un
goccio di whiskey prima dei comizi, per vincere la stretta allo stomaco che gli
dava la vista della piazza".
MASSIMO D'ALEMA. "Tra i giovani, i prediletti erano Bassolino e Angius. D’Alema
era segretario della Fgci, ma non gli piaceva così tanto: troppo presuntuoso.
Berlinguer intendeva modernizzare il partito, non voleva ad esempio che il
segretario restasse in carica a vita. E stava pensando di cambiare nome al Pci.
Non me lo disse mai esplicitamente, come lo sto dicendo io a lei; ma ne sono
convinto».
redazione (11 dicembre 2014, HuffingtonPost.it)
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