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I veri segreti su Moro
Solerte come aveva promesso nella seduta del 29 ottobre scorso dell’apposita
commissione parlamentare d’indagine presieduta da Giuseppe Fioroni, il
sottosegretario Marco Minniti, delegato dal presidente del Consiglio ai rapporti
con i servizi segreti, ha “segnalato” a Matteo Renzi la richiesta unanime votata
dalla stessa commissione di estendere alla tragica vicenda di Aldo Moro la
declassificazione, cioè la desecretazione, già programmata per i documenti sulle
stragi compiute fra il 1969 e il 1984.
In effetti, anche quella che si concluse il 9 maggio del 1978 con
l’assassinio di Moro, dopo 55 giorni di penosa e drammatica prigionia, fu una
strage, essendo tutto cominciato la mattina del 16 marzo con lo sterminio della
scorta del presidente della Democrazia Cristiana. Che era composta di cinque
uomini, fra agenti di polizia e carabinieri.
D’altronde, la vicenda Moro è stata già trattata nell’ambito delle stragi
dalle omonime commissioni parlamentari d’inchiesta succedutesi fra il 1988 e il
2001, per ben quattro legislature, specie dall’ultima, presieduta da Giovanni
Pellegrino, illustre avvocato e giurista eletto senatore nelle liste dei Ds-ex
Pci.
Fu proprio Pellegrino che alla fine inviò un esposto alla Procura di Roma per
prospettare la necessità di riaprire le indagini giudiziarie sul sequestro Moro
in base agli elementi raccolti dalla sua commissione. Indagini che però la
Procura romana ritenne di concludere con l’archiviazione, per quanto clamorosi
fossero gli elementi nuovi raccolti in sede parlamentare, sui quali lo stesso
Pellegrino, intervistato da Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, si soffermò a
lungo in un prezioso libro pubblicato da Einaudi nel 2000, per la collana “Gli
struzzi”, intitolato “Segreto di Stato- La verità da Gladio al caso Moro”.
In quel libro il presidente della commissione riferì, fra l’altro, di
un’audizione del magistrato Tindari Baglione, destinato a diventare procuratore
generale a Firenze ma fattosi le ossa come inquirente occupandosi di terrorismo.
“Alla domanda – disse Tindari Baglione – se eravamo più preparati noi (e cioè la
magistratura inquirente e le forze di polizia) o loro (i brigatisti), la mia
risposta con una battuta potrebbe essere che avevamo gli stessi consulenti”.
Su questa storia inquietante dei consulenti comuni alle brigate rosse e a chi
doveva o avrebbe dovuto combatterle, ma ne fu probabilmente condizionato o
deviato, potrebbero forse aiutare a capire e scoprire qualcosa i documenti
ancora riservati di cui è stata chiesta la declassificazione a Matteo Renzi.
Documenti che risultano essere addirittura 12.500, di cui 474 di provenienza
straniera, per i quali le procedure e gli esiti della declassificazione
potrebbero risultare più lenti e incerti degli altri, non dipendendo la
rimozione del segreto solo dal presidente del Consiglio. Ma i 12.026 di
pertinenza solo italiana, declassificabili entro giugno dell’anno prossimo
secondo le procedure stabilite nelle direttive adottate in materia dallo stesso
Renzi subito dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi per fare luce completa sulle
troppe stragi rimaste parzialmente o del tutto impunite, potrebbero risultare
utili a svelare i segreti che ancora gravano sulla tragica fine di Moro. Che non
fu certo ucciso dalle “giubbe rosse”, come ricorda il titolo sarcastico di un
libro scritto a quattro mani dallo stesso Renzi con Lapo Pistelli, quando i due
andavano d’amore e d’accordo, ma dalle brigate rosse.
Ad uno dei segreti perduranti della vicenda Moro si riferì nel 1998, in
un’intervista fattagli per Il Foglio in occasione del ventesimo anniversario del
sequestro del leader democristiano, Giovanni Leone, presidente della Repubblica
all’epoca dei fatti, raccontandomi i particolari della grazia che il 9 maggio
1978 egli si accingeva a firmare al Quirinale, a dispetto della linea della
fermezza adottata dal governo, per uno dei tredici detenuti per terrorismo di
cui le brigate rosse il 24 aprile avevano chiesto la scarcerazione in cambio di
Moro. Si trattava di Paola Besuschio, condannata in via definitiva ma non per
fatti di sangue, e ricoverata in quei giorni in un ospedale. Dove peraltro la
detenuta, rintracciata con una certa fatica, aveva rifiutato di chiedere la
grazia, che Leone decise di concederle lo stesso, sperando che il suo atto di
clemenza potesse provocare fra i brigatisti un ripensamento sulla decisione già
annunciata di uccidere Moro. Ma i terroristi lo precedettero di qualche ora
ammazzando l’ostaggio.
“A delitto consumato, mi convinsi che i brigatisti fossero al corrente di
quel che stava maturando e, non volendo la liberazione di Moro, avessero
affrettato quella mattina l’assassinio”, mi disse Leone. Che aggiunse, ancora
tormentato da chissà quali sospetti: “Quei brigatisti erano troppo informati”.
Davvero troppo per via forse dei consulenti in comune con lo Stato. Sulla pelle
del povero Moro essi risparmiarono ai vertici delle brigate rosse l’esplosione
di contrasti ancora più forti di quelli già verificatisi nella gestione del
sequestro.
Francesco Damato (4 novembre 2014, Forminche.net)
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