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ISBN 9788867559756
Ultima versione
1.0 del 22/05/2013
Tipologia: Novità

Solo 3.99€!
 



Vuoto a perdere è il solito libro sul caso Moro?
Ascolta cosa ne pensa Giovanni Pellegrino
(Presidente della Commissione Stragi dal 1994 al 2001)


Documento inedito

 
Nel libro ho pubblicato la testimonianza di un collaboratore dell'ufficio in via Fani 109 di cui parla il Sig. Barbaro. Dal suo racconto emergono degli elementi nuovi sui quali nessuno ha ancora fatto chiarezza.
Sarebbe interessante poter approfondire con i protagonisti > leggi <


 

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Ho ucciso tuo padre e non oso chiedere perdono però, se lo vorrai perdonami
05/10/2014 - IlGrantista.it - Katia Ippaso  
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Ho ucciso tuo padre e non oso chiedere perdono però, se lo vorrai perdonami
Intervista a Giovanni Senzani: "Non c’entro niente con Moro". Su Cutolo: "Non ci fu nessuna trattativa"

 

L’uomo che mi siede di fronte indossa una maglietta a righe sopra un’altra maglietta grigia. Sopra le due magliette, pende sbilenco un gilet nero con un bordino rosso. Il tutto un po’ caotico, come se fosse stato messo al buio, di fretta. Una cosa non sta esattamente sopra l’altra, ma insieme all’altra. Sulla testa, un berretto estivo. L’uomo che mi siede davanti porta gli occhiali. Al polso, stretti l’uno all’altro, decine di braccialetti di cuoio che devono essere stati molto usati. E’ lui a scegliere dove sedersi, obliquamente. «Un orecchio non funziona più molto», ci dice con quella sua voce acuta, che a tratti si spegne per andare dietro alla parole che si accartocciano nella corsa. Una voce che ride. Si chiama Giovanni Senzani, è stato uno dei leader delle Br. Oggi ha 72 anni. Ha appena scritto un libro assieme a Pippo Delbono, che si intitola Sangue: un ”dialogo tra un artista buddista e un ex brigatista tornato in libertà”. L’ha pubblicato Clichy. C’è il coraggio di chi sopravvive, in quel libro. E’ molto bello. E prima del libro c’era un film, che si intitolava anche lui Sangue e aveva ricevuto premi e critiche pazzesche da Le Monde ma aveva fatto anche arrabbiare qualcuno, per via della presenza di Senzani appunto, di questo uomo che oggi mi siede davanti nella sua mitezza ma che nel film parla dell’esecuzione di Roberto Peci (che lui e i suoi compagni uccisero nel 1981), in un modo che alcuni hanno giudicato gelido. Delbono ha scelto un uomo che ha dato la morte per affrontare il lutto. A di- stanza di tre giorni l’una dall’altra se ne andavano la madre di Pippo e la moglie di Giovanni, Anna. Rimasti soli, l’artista buddista e l’ex terrorista tornato in libertà hanno affrontato il trapassatoio di chi, dopo aver visto quello che ha visto, è rimasto in vita.

Avremmo dovuto incontrarci nella sua casa di Firenze ma poi lui ha preferito di no. Giovanni Senzani ha preso un treno la mattina presto ed è venuto a Roma. Via della Panetteria la conosceva bene, mi aveva detto per telefono.

Quindi lei viveva qui vicino, tanti anni fa.

Stavamo a via della Vite, con Anna, mia moglie. Era il 1969. Ricordo una casa piena di ospiti, perché Anna voleva sempre gente in casa. All’angolo con via Mario dei Fiori, parlavamo con quelli degli alberghi accanto… Era di una bellezza incredibile. Da quelle finestre lunghe si vedeva il Quirinale… Quell’attico apparteneva a un signore di Genova, lo diede a noi e Anna, che aveva avuto in eredità tre lire dopo la morte del padre, le spese tutte per restaurarlo. Scrissero che vivevamo nella casa di uno dei servizi segreti, ma questa è una fandonia assoluta. E’ solo una delle falsità che si sono dette su di me. Un’altra è che lavoravo per il Ministero di Grazia e Giustizia.

Le cronache di quegli anni parlano di una doppia vita, militante delle Br e consulente del Ministero di Grazia e Giustizia.

La cosa è molto differente. Io sono laureato in legge a Bologna, in diritto del lavoro. E ho cominciato subito a fare il ricercatore. Per la Comunità del Molo, che era un gruppo del dissenso genovese, cominciai una ricerca sul campo in 118 istituti di rieducazione in tutta Italia. Dietro la ricerca c’era la Fondazione Iniziative Assistenziali Pilota di Torino. Naturalmente in questo modo conobbi tutti i direttori delle carceri e ci mancò poco che facessi pure io il direttore… Negli istituti ci andavo con un fotografo. Io ero vissuto come una specie di “ispettore”, ma al fotografo, che si presentava in maniera più informale, i ragazzi affidavano dei bigliettini in cui raccontavano tutta la verità sulla loro condizione negli istituti. Da quell’esperienza nacque un libro che è stato considerato a lungo il libro più importante per le scuole di formazione dei servizi sociali, “L’esclusione anticipata”…

Oggi se cerchi “L’esclusione anticipata” su Google ti dicono che il libro non è disponibile, ma galleggia ancora in rete una recensione che era stata pubblicata l’8 agosto del 1970 sul “Corriere della Sera” firmata da uno dei più autorevoli giornalisti della testata milanese, Giuliano Zincone.

Ha fatto il criminologo?

Ad un certo punto, nel 1972/73, sono andato in America, all’Università di Berkeley, per fare una ricerca su “Deviance and Control” rispetto ai minorenni e alle minoranze black e spanish, e quando sono tornato ho pubblicato e tradotto in Italia un libro di un importante criminologo, “L’invenzione della delinquenza” di Anthony Michael Platt. Non ho mai fatto il criminologo.

Anche di questo libro c’è una traccia, ma più fantasmatica dell’altra. Si vede una copertina marrone ma i caratteri di titolo e autore sono stati cancellati, c’è una riga neutra al loro posto. La scheda dice che la cura del libro è di Giovanni Senzani, 1975, zero recensioni.

Chi erano i suoi genitori?

Dissero che venivo da una famiglia borghese. Io invece sono figlio di una famiglia di contadini di sinistra, sono nato a Forlì. Il Pci lo sa benissimo da dove vengo… Come romagnolo, ero fuori dalla sinistra legata al Pci che governava in quelle terre, al massimo andavamo a sentire Ingrao. Eravamo della cosiddetta sinistra extraparlamentare.

Dove vi siete conosciuti con Anna?

A Genova. Anna era tornata da Londra, dove aveva fatto le scuole internazionali. Scoppiò questa follia dell’amore.   Ci sposammo a Genova, ma ci trasferimmo quasi immediatamente a Roma, e subito dopo a Napoli. Ci fu poi l’esperienza americana. Nel frattempo nacquero le nostre due figlie, Francesca e Alessandra. Tornammo a Napoli, dove creai tra le altre cose una biblioteca bellissima di studi marxisti… Poi mi trasferirono a Firenze. Cominciai a fare l’assistente all’Università, per la cattedra di Sociologia. Superai il concorso e diventai professore, prima a Siena e poi a Firenze… Ma a quel punto io ero già una persona impegnata politicamente.

Vuol dire che era già entrato nella lotta armata?

Io sono entrato nelle Br molto tardi.

Come è successo?

La mia generazione era immersa in quel clima, in quel dibattito. Poi il problema è se ai discorsi fai seguire i fatti.

Nel dialogo con Delbono, lei afferma: «Non mi sono mai considerato né mi considero un terrorista, ma un militante politico che praticava la lotta armata come strumento di lotta politica. Non accetto questa specie di guerra di annientamento di tutto e di tutti».

E’ così, io non voglio fare il santo, ma sono contrario alla criminalità.

Lei è contrario alla criminalità?

Sì, lo so che può sembrare assurdo, ma io sono profondamente contrario alla criminalità. Io ero noto perché ero quello che aveva denunciato i direttori delle carceri, che ha fatto chiudere le carceri minorili, mentre poi sono diventato quello che sono diventato. Io volevo aiutare i poveri e soprattutto le persone del sud. Uno degli istituti che avevo frequentato era diretto dai preti, mi scrivevano lettere bellissime… Nel ’68 sono stato da Basaglia, lì mi sono nate delle idee e sono diventato molto rigido contro l’emarginazione.

Lei fu arrestato una prima volta nel 1979, ma ne uscì dopo 5 giorni. Entrò in carcere tre anni più tardi, nell’82.

Mi arrestò Vigna, che era un magistrato che non scherzava. Non sapevo come sarebbe andata a finire…In quei cinque giorni ho visto il carcere in un modo ancora diverso. Da carcerato, mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: e adesso come faccio? Poi questo sentimento è tornato nei miei lunghi isolamenti durati cinque anni. Quando uno è in isolamento o scoppia o impara a reggere, e la resistenza diventa una paradossale forma di rispetto.

Rispetto verso chi?

Verso l’altro e verso te stesso. L’unico rapporto che hai è con una guardia. Qualche volta veniva anche il direttore del carcere che aveva anche una sua umanità e diceva: «Senzani, hai visto? Hai conosciuto il carcere da fuori, l’hai studiato, e adesso sei dentro al carcere. Forse hai voluto viverlo, dovevi fare quest’esperienza». Non era proprio così, ma lui la vedeva così.

Lei ebbe un coinvolgimento nel rapimento e nell’uccisione di Aldo Moro?

Non c’entro niente con Moro. E’ stato detto pure che ero una delle menti del processo a Moro. Ma è assurdo. Non si può continuare a parlare delle Br come se fossero una banda di poveracci. Era una struttura militare. Il mio è stato un percorso molto più lento degli altri compagni. Non faccio parte della prima parte della storia delle Br.

Come si spiega che sia stato fatto allora il suo nome?

La faccenda è molto complicata, ma io non ho voluto in qualche caso fare delle smentite, perché per quello che riguarda la lotta armata la mia è una vicenda politica, è una storia politica collettiva. Anche rispetto al sequestro Cirillo non ho mai parlato.

Il nostro giornale ha intervistato quest’estate un ex brigatista che non aveva mai parlato, il napoletano Enzo Olivieri, che aveva preso parte al sequestro Cirillo (rapito da voi il 27 aprile 1981 e rilasciato il 24 luglio). Smentì che ci fu una trattativa Stato-camorra-Brigate Rosse.

Enzo Olivieri ha detto esattamente come sono andate le cose. Non ci fu nessuna trattativa. Un mitomane come Cutolo che si sentiva onnipotente si sarà inventato questa cosa per avere notorietà. Può anche essere che dopo aver raccolto noi i soldi del riscatto, loro ne abbiano raccolti altri per conto proprio. Di sicuro non ci fu nessuna mediazione. Non ne avevamo bisogno. Anche perché avevamo deciso di liberare Cirillo e la cosa del riscatto ci venne in mente dopo, solo per raccogliere soldi che ci servivano per autofinanziarci. E la cosa fu talmente farraginosa, quasi comica: l’uomo che fece da mediatore tra noi e gli amici di Cirillo che raccolsero i soldi (Enrico Zimbelli, ndr), fu spedito a Roma con un valigia pesantissima piena di soldi (un miliardo e quattrocentocinquanta milioni, cinquanta se li trattenne lui) che quasi faceva fatica a camminare…

Olivieri ci ha anche detto che lo Stato voleva Moro morto, mentre Cirillo lo voleva vivo.

Può darsi che fosse così, ma comunque noi l’avremmo lasciato vivo. Bisogna capire che a Napoli c’era stato il terremoto e il democristiano Cirillo, che era l’assessore all’Urbanistica, rappresentava il male della politica. A Napoli le case crollavano, le scuole erano occupate, la città era in ginocchio. Non c’erano poteri occulti che ci manovravano.
Le Brigate Rosse a Napoli erano fatte di napoletani che vivevano nei quartieri, in mezzo al popolo. Per quei tre mesi abbiamo realizzato diverse azioni e riempito la città di comunicati sonori e volantini. Mettevamo gli altoparlanti alle stazioni dei treni per fare sentire i nostri messaggi. Un giorno si sente la registrazione con la voce di Cirillo che parla napoletano e chiede di esaudire le richieste dei comitati dei terremotati, tra cui la requisizione delle case sfitte perché venissero date, appunto, ai terremotati. E così fu. La gente a Napoli parlava, solidarizzava. Molti tra i proletari ci hanno anche rimproverato di non averlo ucciso perché era una persona odiata. Ma io ero contrario al giustizialismo.

Come fa a dire di essere contrario al giustizialismo?

Uccidere come fa un camorrista perché gli toccano il suo quartiere e i suoi interessi, è ben diverso da come uccidevamo noi. Detto questo, io oggi dico che quella delle Br è stata una storia molto dolorosa e molto pesante. Che sono stati fatti anche degli sbagli militari. Il processo proletario in sé è un’aberrazione. Già allora ero contrario. Quel processo era mutuato da altre esperienze rivoluzionarie, ma a ripensarci ora era una parodia, una cosa ridicola, per non parlare della violenza inutile.

In quella stessa estate del 1981 voi avete sequestrato (il 10 giugno) e ucciso (il 3 agosto) l’operaio Roberto Peci, il fratello di Patrizio Peci, che si era dissociato e pentito. Roberto aveva venticinque anni e aspettava una bambina dalla moglie. Filmaste l’esecuzione.

Non voglio riaprire questioni di questo tipo perché lì qualsiasi cosa si dica non va bene.
Qualsiasi cosa si dica in merito a questa storia che è una storia pesante offende le vittime, le famiglie. Che senso ha dopo tanti anni parlare di tutto questo? E poi ci sono i quattro compagni uccisi a via Fracchia, a Genova. Il generale Alberto Dalla Chiesa, che è il protagonista di questa storia, è morto, e la verità con lui.

Nel film “Sangue” lei rivive l’esecuzione di Peci. Racconta qualcosa che non è sogno, forse più un incubo ad occhi aperti. Leggo dalla sceneggiatura: «I compagni avevano sistemato un cartello ”Morte ai traditori” e poi dopo è arrivata quello che noi chiamiamo l’esecuzione, la fucilazione. E quell’urlo: No! È stato improvviso, proprio come sentire uno che in quel momento capiva, che sentiva penetrare i colpi dentro di lui… E’ vero che la morte ai traditori era una cosa abbastanza diffusa all’interno del movimento rivoluzionario, ma farlo in questo modo… Si trattava pur sempre di una persona inerme».

Questa cosa di Peci è venuta fuori nel dialogo in barca con Bobò ( oggi primattore della compagnia, è stato sottratto da un vita in manicomio tanti anni fa dallo stesso Delbono, ndr), che si legge nel libro. Bobò però è sordomuto, non mi risponde ma capisce tutto. A lui cercavo di dire proprio questa cosa di Peci. Sono riuscito a raccontargli tutta la mia storia, gli anni della lotta armata, le torture che mi hanno fatto in carcere, l’isolamento. Gli ho detto chi ero, ma quella cosa lì non sono riuscito a dirla bene. Anche perché lui è come sfuggito. E poi la cosa di Peci l’ho raccontata una sera a Pippo in un altro momento, ed è venuta così, e poi lui l’ha messa nel film…. Ho descritto quello che è accaduto nella mia testa, sì, posso immaginare che… Io ho avuto un contatto con la morte… Mi fa effetto. Ma non è bello parlare di queste cose, non posso.

Che sensazione le dava usare un’arma?

Io ho fatto il militare perché mi toccava e ho fatto l’addestratore per l’uso delle armi. Ma non mi piacevano le armi. Cioè le smontavo, le usavo, ma le ignoravo. Solo quando sono diventato brigatista ho capito cosa significhi avere un’arma. A quel punto è diventata una parte di me. Era la garanzia che potevo salvarmi. Se uno di noi usciva senza arma, tornava a casa perché sentiva che gli mancava qualcosa. La domanda bella che ha fatto Pippo è stata: «Ma tu allora facevi la guerra e rischiavi di morire?». «Nella guerra, Pippo, si muore» ho risposto io. E lui: «Io questa cosa non l’accetterei mai». Lui mi ha fatto capire, da buddista, che io disprezzo la vita. Ma io non la vedo così. La morte, la mia morte, era nel percorso, nella scelta che avevo fatto.

C’è una lettera di Roberta Peci, la figlia di Peci, che nacque qualche mese dopo la morte del padre, in cui chiede di incontrare lei.

Ma il giorno dopo è andata da Bruno Vespa.

Nella lettera chiedeva che l’incontro tra voi due avvenisse lontano dai riflettori, in privato.

Ma non ha mai fatto sì che questo accadesse.

Forse sta a lei far sì che questo accada.

Lei voleva venire con le telecamere.

Se al mio posto, qui di fronte a lei, ci fosse Roberta Peci, e se voi foste soli, che cosa le direbbe?

Silenzio.

Che cosa le direbbe?

Le direi che capisco il dolore che ha provato. Che so che la sua vita è stata distrutta da quell’avvenimento. La perdita del padre è una cosa enorme. …E poi c’è stata una costruzione tremenda. Hanno fatto diventare suo padre un personaggio negativo. Le direi che suo padre era invece una persona dignitosa… Io lo so cosa vuol dire passare per mostro. Io non sono quello lì… No, non sono quello lì…. Poi, uno la morte, finché non la prova non la può capire.

Io penso all’Antigone. Penso a Polinice e Antigone. Penso all’importanza del seppellimento dei propri morti. E finché non seppellisci i tuoi morti non hai pace.

Riesco a capire questa cosa. E una riflessione sui morti l’ho fatta anche al funerale di Prospero Gallinari, che si vede anche nel film di Pippo.

Lei ha preferito che ci incontrassimo a Roma perché la sua casa di Firenze è piena della sua vita con Anna?

E’ la casa di Anna.

E’ per questo, quindi?

Sì, è per questo. Non è che ne voglio fare un museo… E’ evidente che… Io adesso vivo solo. Ho una figlia sposata all’estero. L’altra è a Firenze ma vive da un’altra parte… Sono rimasto lì, solo.

Non ha toccato niente delle cose di Anna?

No.
Silenzio.

Per questo posso capire quando parlavamo prima della figlia di Peci….La perdita di Anna è difficile da rielaborare per me… Per lei è stato difficile accettare la mia scelta, ma io ho sempre pensato che se dici certe cose poi le devi anche fare.

Anna è sempre stata contraria al- la sua scelta.

E’ inconcepibile per Anna poter uccidere qualcuno.

Ne parla come se fosse viva.

Anna mi ha aspettato tutta la vita.

Ci sono nel libro suoi racconti di Anna che «prendeva i treni della notte con i pacchi pieni di borse, con il pacco viveri per il carcerato, e magari arrivava all’isola di Pianosa o in quei posti infami in cui ero rinchiuso, lei veniva perquisita, le bambine spogliate, veniva da me dietro un vetro blindato, mi lasciava da mangiare e se ne andava». –

Cosa l’ha sostenuta per tutti questi anni?

Anna è forte. Io sono fragile. Io sono molto più fragile di Anna. Lei è forte. E’ stata forte anche quando per colpa mia l’hanno licenziata dalla Feltrinelli. Anna ha avuto un unico momento veramente fragile e si vede. Io ho dei ritratti di Anna fatti da pittori, uno non l’avevo mai visto, l’ho visto dopo. E lì si vede come una ribellione… Ma poi è sempre andata avanti. E’ una che ha una dimensione positiva della vita. E’ una che fa le cose.

Cosa immagina quando pensa alla sua di morte, alla morte di Giovanni Senzani?

Non è un gran problema per me il pensiero della mia morte. La frase che c’era nel film e ora è solo nel libro… La frase in cui dico «Questa vita non mi piace, questo mondo non mi piace, di questa libertà non so che farmene» e che mia figlia mi contesta, è vera. Io ogni tanto mi dico: «Basta. Che ci faccio qui? Cosa ci faccio qui?». Poi un altro può rispondere: «Ma come, Giovanni, hai un nipotino a cui sei legatissimo, che dici?». Impazzisco all’idea di non vederlo più.

Però la libertà l’ha aspettata per 27 anni. Dall’82 al 2009, anno in cui è uscito di prigione.

Sì, ho sognato per tanti anni di uscire. Ne sono uscito dignitosamente. Non ho fatto nulla di particolare per ottenere la libertà. Ho fatto un percorso normale. Sono uscito. E quando sono uscito è stato travolgente. All’inizio una persona che viene da altri mondi, come nel film Blade Runner, non se ne accorge subito che non capisce nulla, che non riconosce più niente. Non riconosce niente della realtà. Prima c’era il travaglio che ti portavi in casa quando la tua libertà era intermittente. E poi alla fine torni per sempre perché la Magistratura ha decretato che esci per estinzione della pena. Completamente libero. A quel punto arriva l’imprevisto. Anna che non era mai stata malata nella sua vita si ammala di tumore. Avevo già vissuto questa cosa. Mia sorella tanto amata è morta in un mese. Ma vedere crollare Anna è stato…

Che rapporto ha con la fede?

Non sono credente, ma il mistero della fede lo capisco. Mia madre era cattolica, sono cresciuto in quell’ambiente ma io non mi sono mai avvicinato. Però ho rispettato sempre molto le persone che credono. Quando sono stato quei lunghi anni in isolamento, ed è stato molto pesante, avrei voluto anche avere fede. Perché la fede ti fa vedere cose incredibili. Pippo, che è buddista, vede cose incredibili. Anche Padre Fantuzzi, che è gesuita e ha scritto una bellissima recensione su Sangue, vede cose incredibili. Dice di aver visto il divino persino in me.

Come ha conosciuto Pippo Delbono?
Una volta, a Firenze, vado a vedere uno spettacolo di Pippo Delbono. Lui viene a sapere che io sarei stato in platea e mi fa sapere che dopo lo spettacolo mi aspetta in camerino. Lo invito a colazione per il giorno dopo. Avevamo comprato i cornetti, io e Anna lo aspettavamo, e sa come è Pippo, non si presenta. Alle due di notte mi telefona e mi dice che si era perso il numero e che poi non si sa come se l’era procurato. Insomma mi chiede: «Posso venire a mangiare adesso da te?». Si presenta a quell’ora e parliamo tutta la notte. Io gli dico: «Ho capito, tu sei abituato a fare le cose con Bobò, con gli emarginati, e adesso vuoi fare una cosa con me che sono un reietto. E’ evidente, tu vuoi fare qualcosa con “Senzani il mostro”». Poi è venuto lo spettacolo, Dopo la battaglia, in cui io leggevo una cosa sul carcere con la mia voce, che lui ha detto fa un po’ schifo la tua voce ma è un po’ come quella di Pasolini che uno se la ricorda, e poi tutto il resto. Ma Anna è stata molto importante in questo incontro, è con lei che Pippo aveva veramente legato, anche se adesso che sono morte sua madre e Anna siamo legati noi.

Lei ha esercitato il potere, fuori e dentro il carcere (il famoso “fronte delle carceri”). La chiamavano “il professore”, era ascoltato e temuto. Molti avevano, e hanno ancora, paura di Giovanni Senzani.

Il potere è una cosa deteriore, anche dentro le Brigate Rosse ci sono state delle lotte di potere.

Le dava piacere comandare?

Una volta mi hanno accusato di questo. Però sì, il potere è rischiosissimo. Uno dovrebbe avere la presenza e quindi la coscienza di sottrarsi. Il potere ti uccide, e uccide.

Un altro “intellettuale” delle Br era suo cognato Enrico Fenzi. Entrambi eravate chiamati “i professori”. Vi frequentate ancora?

Fenzi è un famoso italianista, un intellettuale vero, e io una volta ci sono andato a sentirlo. Ma i fotografi si sono accorti che io ero tra il pubblico, anche se ero seduto in fondo, mi hanno fatto delle domande e alla fine hanno pubblicato la mia foto con scritto: “Senzani è sempre lo stesso, si rifiuta di parlare”.

Quando suo nipote le chiederà «Nonno, cos’erano le Brigate Rosse?», lei cosa racconterà?

Che la storia delle Brigate Rosse fa parte di una storia più grande, la Storia del Movimento Rivoluzionario, e che bisogna partire dagli albori. Gli direi che la storia delle Brigate Rosse è storia cruenta. Che hanno preso le armi e hanno fatto assurdi processi proletari. Gli direi che anche suo nonno ha creduto che bisognasse fare una rivoluzione nell’Occidente avanzato, ma che questa guerra è stata una scorciatoia. Che i processi storici sono molto più lunghi. Gli direi che con il crollo del Muro di Berlino si è visto che cos’era la rivoluzione russa. Gli direi che io non sono mai stato a favore del socialimperialismo, che io sono stato un brigatista. Che io sono marxista ma non si può prendere Marx e ripeterlo. Gli direi che, al di là dei limiti della nostra impresa politica, i tempi non erano giusti. E che abbiamo messo in moto una cosa che ha comportato tanti lutti. Gli direi che suo nonno amava insegnare e sarebbe stato un bravo professore e la sua vita sarebbe stata tranquilla, gli ricorderei di quando aiutavo i ragazzi devianti a denunciare le loro condizioni. Gli direi che sua nonna era una persona meravigliosa che ha sopportato tutto e che ha avuto tanta forza….  Il problema delle Br non sta solo in me. Io non sono un maestro né cattivo né buono. Ai funerali di Prospero Gallinari c’erano dei ragazzini che partecipavano e alzavano il pugno. C’era Oreste Scalzone, c’erano i compagni della colonna romana, c’eravamo tutti, anche se io e Pippo ci siamo capitati per caso (poi la scena dei funerali di Prospero si vede in Sangue). E nessuno di noi ha alzato il pugno. Non perché siamo vigliacchi, ma perché siamo ormai fuori da questa storia. Abbiamo fallito.

Una volta ha dichiarato che per lei chiedere perdono è un atto osceno. Si ricorda quello che abbiamo detto prima? Che io potrei essere la figlia di Peci.

Chiedere perdono a una persona a cui ho ucciso un parente… Mi sembrava una cosa oscena, sì. Era come farle un’offesa ulteriore. Il perdono me lo dà la persona, se me lo vuole dare. Io non sono nelle condizioni di chiedere niente.

Si può dire: «Ho sbagliato».

Non solo io ho sbagliato, ho fatto molto di più, io ti ho tolto il padre. Non è un semplice errore. E’ qualcosa di molto più grande. Una cosa immensa. Ho inferto una ferità che non si risanerà mai. Ti ho ucciso il padre. Un morto è un morto. Non c’è niente da fare su questa cosa. Chiedendo il perdono, mi sembrava allora di andare ad interferire con la storia umana di una persona e di imporre una ferita ancora più grande. Però tu sei libera di perdonarmi, se lo vorrai.

- Ci alziamo entrambi. Senzani è un po’ stordito. Prende la sua bottiglietta d’acqua non ancora finita. Ha davanti a sé diverse ore, riprenderà il treno per Firenze alle sette di sera. E’ indeciso se parlare o no. Prima di uscire dalla stanza si gira verso di me.-

G.S. Posso farle io una domanda ora? Prima, quando ha detto quella cosa della casa di Firenze che è piena delle cose di Anna, perché l’ha detto? Come faceva a saperlo?

K.I. Non lo so, quando lei mi ha detto «Preferisco di no, preferisco venire a Roma», ho pensato che fosse per quello, e non perché avesse qualcosa da nascondere.

G.S. Adesso passo a via della Vite. Mi piacerebbe sapere se c’è ancora quella vite americana che avevo piantato nel terrazzino vicino alla cucina. Non è che ci posso entrare. Ma magari c’è ancora.

 

Katia Ippaso (5 ottobre 2014, Il Garantista.it)

 

       

 

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