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L’americano che aiutò Cossiga «Non dovevamo salvare Moro»
Pieczenik: ero terrorizzato, vivevo in albergo con la pistola che
mi diede il ministro
Il consulente Usa: Lo psichiatra mandato dal governo Usa nel 1978 dopo via fani
Davanti al magistrato italiano, il protagonista «amerikano» del caso Moro
mostra di avere un’alta considerazione di sé. Vuole essere chiamato «dottor
Pieczenik», rivendicando il titolo di medico psichiatra al servizio del governo
degli Stati Uniti. Nella primavera del 1978, durante il sequestro del leader
democristiano, fu inviato in Italia per assistere il ministro dell’Interno
Francesco Cossiga. Il suo ruolo - rimasto sempre piuttosto misterioso - venne
alla luce molto più tardi, e dopo tante interviste e affermazioni spesso ambigue
Steve Pieczenik, oggi settantenne, è stato interrogato per la prima volta da un
inquirente italiano. Il 27 maggio scorso il pubblico ministero della Procura di
Roma Luca Palamara è andato ad ascoltarlo in Florida, con l’assistenza di un
magistrato statunitense. Quello che segue è il resoconto della sua
testimonianza, raccolta a 36 anni di distanza dai fatti in un’indagine che
tenta, se non di scoprire nuove verità, almeno di dissipare ombre.
All’epoca Pieczenik veniva considerato un esperto di sequestri: «Ero appena
riuscito a negoziare il rilascio di circa 500 ostaggi americani a Washington in
tre diversi palazzi utilizzando tre ambasciatori arabi... Cossiga è venuto a
sapere di me e ha chiesto al segretario di Stato Cyrus Vance di chiedermi se
potevo andare ad aiutarli nel rapimento di Aldo Moro».
Allo psichiatra statunitense sbarcato a Roma una decina di giorni dopo la
strage di via Fani in cui le Brigate rosse avevano sterminato la scorta del
presidente della Dc e portato via il prigioniero, erano state date consegne
precise per la sua collaborazione col governo italiano: «L’ordine non era di far
rilasciare l’ostaggio, ma di aiutarli nelle trattative relative ad Aldo Moro e
stabilizzare l’Italia». Poi aggiunge: «In una situazione in cui il Paese è
totalmente destabilizzato e si sta frantumando, quando ci sono attentati,
procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con
organizzazioni terroristiche... Se cedi l’intero sistema cadrà a pezzi». Aveva
paura anche per se stesso, il consigliere americano: «Ero terrorizzato, non
avevo nessuna protezione, mi hanno messo in una abitazione sicura con due
carabinieri senza pistola e senza munizioni, e sono andato via... Cossiga mi ha
dato una pistola Beretta 7.4 mm e qualcuno che venisse con me per allenarmi a
sparare, non ero vestito in modo formale ma con i jeans, in incognito... Mi ero
trasferito all’hotel Excelsior. Ho trascorso tutte le notti con una pistola tra
le gambe, pronto a sparare a chiunque».
Pieczenik trascorse le sue giornate romane per lo più nell’ufficio di Cossiga,
insieme a «uno psichiatra italiano» (probabilmente il criminologo Franco
Ferracuti, iscritto alla Loggia P2 di Licio Gelli) e al giudice Renato
Squillante, all’epoca consigliere del ministro dell’Interno. Il pm Palamara gli
chiede che cosa ha fatto in concreto, e il testimone risponde: «Dovevo valutare
che cosa era disponibile in termini di sicurezza, intelligence, capacità di
attività di polizia, e la risposta è stata: niente. Ho chiesto a Cossiga cosa
sapeva delle trattative con gli ostaggi e lui non sapeva niente; in terzo luogo
dovevo assicurarmi che tutti gli elementi che negoziavamo dovevano diminuire la
paura e la destabilizzazione dell’Italia; quarto: dovevamo valutare la capacità
delle Br nelle trattive e sviluppare una strategia di non-negoziazione,
non-concessioni».
Nella sostanza, Pieczenik voleva «costringere le Br a limitare le richieste
in modo che avessero una sola cosa possibile da fare, rilasciare Moro». Andò al
contrario, come il consigliere statunitense ha confidato in un libro scritto da
un giornalista francese e crudamente intitolato «Abbiamo ucciso Aldo Moro». Ma
adesso Pieczenik prova a fare marcia indietro: «Programmi tv e interviste per me
sono solo spettacolo e finzione, ciò che dico alla stampa o nelle interviste è
disinformazione». E dunque, quasi si spazientisce il pm Palamara, è vero o no
che secondo Pieczenik lo Stato italiano ha lasciato morire il presidente dc?
Risposta: «No, l’incompetenza dell’intero sistema ha permesso la morte di Aldo
Moro. Nessuno era in grado di fare niente, né i politici, né i pubblici
ministeri, né l’antiterrorismo. Tutte le istituzioni erano insufficienti e
assenti».
Lo specialista arrivato da Washington sostiene di essersi limitato a leggere
i comunicati delle Br, che avevano una «strategia molto facile», rendendosi
conto che il governo italiano non era in grado di fare nulla. Quindi, dopo aver
sponsorizzato la linea della fermezza appoggiata dal partito comunista, ripartì
alla volta degli Usa, a sequestro ancora in corso. Come se la sua missione fosse
compiuta: «Cossiga era un uomo estremamente intelligente che ha capito molto in
fretta ciò che doveva fare, ed è stato in grado di attuarlo... Continuare a
cercare di stabilizzare l’Italia e continuare la politica di non-negoziazione,
nessuno scambio di terroristi e nessun altro scambio». Rientrato in patria, il
consigliere venne a sapere che Moro era stato assassinato: «Ho pensato che
sfortunatamente le Br erano dei dilettanti, e avevano fatto davvero un grande
sbaglio. La peggior cosa che un terrorista possa fare è uccidere il proprio
ostaggio. Uccidendo Aldo Moro hanno vinto la causa sbagliata e creato la loro
autodistruzione».
Dopo il sanguinoso epilogo, Pieczenik sostiene di non aver seguito gli
sviluppi del caso Moro, né avuto altri contatti con il governo italiano: «Ho
fatto il mio lavoro e sono tornato a casa, ero felice di aiutare l’Italia... Poi
sono stato impegnato nella caduta dell’Unione Sovietica... L’America e io
abbiamo abbattuto l’Urss, portato la libertà in Cambogia, abbattuto il partito
comunista cinese e integrato l’Unione Europea, ma l’Italia non è cambiata, ha un
tasso di crescita negativo, una disoccupazione elevata... Penso che abbiate oggi
un problema più grave di quello che avete avuto nel rapimento di Aldo Moro» .
di Giovanni Bianconi (17 luglio 2014, Corriere della Sera)
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