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Caso Moro, 36 anni dopo l’Honda di via Fani resta ancora un
mistero
I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due
loro uomini, ma da quella moto si spararono - sicuramente - gli unici colpi
verso un 'civile' presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro
Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo. Mario
Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di
grossa cilindrata: "Non è certamente roba nostra"
Per una volta sono tutti d’accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in
via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero. I capi brigatisti hanno sempre
negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono –
sicuramente – gli unici colpi verso un ‘civile’ presente sulla scena del
rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla
sentenza del primo processo Moro. Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati
sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: “Non è certamente
roba nostra”.
L’ingegner Marini si salvò solo perché cadde di lato quando una raffica
partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui ad altezza d’uomo proprio
da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il
parabrezza del suo motorino con il quale l’ingegnere cercava di ‘passare’
all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16
marzo. Il conducente della moto – disse – era un giovane di 20-22 anni, molto
magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò “l’immagine
dell’attore Eduardo De Filippo“. Dietro, sulla moto blu, un uomo con il
passamontagna scuro che esplose colpi di mitra nella direzione dell’ingegnere
perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera
a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: “Devi stare zitto”. Per
giorni le intimidazioni continuarono. Si rafforzarono quando tornò a
testimoniare ad aprile e giugno. Poi l’ingegnere capì l’aria, si trasferì in
Svizzera per tre anni e cambiò lavoro.
Il caricatore cadde certamente dalla moto e Marini, dicono le carte, lo fece
ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra
ritrovati in covi Br che spararono in via Fani (ce ne è anche un quarto, mai
ritrovato). Di certo da quella moto si sparò per uccidere Marini, tanto che i
brigatisti sono stati condannati in via definitiva anche per il tentato omicidio
dell’ingegnere. Marini d’altra parte confermò più volte durante i processi il
suo racconto e consegnò il parabrezza trapassato dai proiettili. A terra in via
Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie
sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l’ottava arma usata in via
Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell’agente Zizzi, che scortava
Moro, e quella in mano all’uomo della Honda: il piccolo mitra.
Su chi fossero i due sulla Honda tante ipotesi finora: due autonomi romani in
‘cerca di gloria’ (ma perché allora sparare per uccidere?); due uomini della
‘ndrangheta (ma non si è andati oltre l’ipotesi); o, come ha ventilato anche il
pm romano Antonio Marini che ha indagato a lungo sulla vicenda, uomini dei
servizi segreti o della malavita.
I Br negano ma, ha detto il magistrato, “una spiegazione deve pur esserci. Io
vedo un solo motivo: che si tratti di un argomento inconfessabile”. Uomini della
malavita o dei servizi? “Allora tutto si spiegherebbe”. Certo che quella mattina
a pochi passi da via Fani c’era, per sua stessa ammissione, Camillo Guglielmi,
indicato alternativamente come addestratore di Gladio o uomo dei servizi
segreti, invitato a pranzo alle 9.15 di mattina da un suo collega. E Guglielmi è
proprio l’uomo dei servizi chiamato in causa nella lettera anonima che ha dato
il via a Torino agli accertamenti sui due uomini a bordo Honda, poi trasferiti a
Roma. A Guglielmi si è addebitata anche la guida di un gruppo clandestino del
Sismi incaricato di ‘gestire’ il rapimento Moro secondo un’inchiesta che è anche
nell’archivio della Commissione stragi, in Parlamento.
Redazione (23 marzo 2014, Il fatto Quotidiano)
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