Aldo Moro fu rapito…Pino Nicotri ricorda: 36 anni dopo i
misteri continuano
Aldo Moro fu rapito il 16 marzo 1978, trentasei anni fa. Qui desidero
ricordare quanto ho appreso casualmente nell’agosto 1993 riguardo la mancata
possibilità che lo Stato italiano liberasse dalla sua prigionia brigatista
l’onorevole Aldo Moro. E come è stata sprecata la possibilità di fare piena luce
sui perché e per ordine di chi il manipolo di “baschi neri” del ministero
dell’Interno venne bloccato pochi minuti prima di assaltare la prigione
brigatista. Prima però è bene inquadrare la vicenda nel suo contesto storico non
sufficientemente noto. Vado quindi per ordine.
Un primo tentativo di assassinare moralmente Moro è del 1976 e porta già la
firma di Kissinger. Negli Usa la commissione Frank Church del senato USA
comincia quell’anno le sue indagini sulle attività delle multinazionali tese a
organizzare in tutto il mondo scandali contro le frazioni pro-sviluppo dei
propri Paesi e scopre, tra l’altro, che la potente industria aeronautica
militare Lockheed usava corrompere con ricche bustarelle i politici di più parti
del globo per convincerli ad acquistare i propri aerei.
Ultime da Pino Nicotri:
A prendere le mazzette in Italia era un misterioso personaggio soprannominato
in codice Antelope Cobbler. Per farne naufragare la politica di apertura ai
comunisti e ai palestinesi, è un assistente del Dipartimento di Stato, cioè di
Kissinger, tale Loewenstein, filosionista e antiarabo come il suo famoso
principale, a proporre di dare in pasto alla stampa Moro indicandolo come l’Antelope
Cobbler.
La proposta è resa operativa da Luca Dainelli, ambasciatore italiano negli
Usa e membro dell’International Institute for Strategic Studies. Il complotto
contro Moro però non riuscì. Pur messo sotto accusa, la corte Costituzionale ne
archiviò la posizione il 3 marzo 1978. Vale a dire, 13 giorni prima dell’agguato
di Via Fani.
Ad agguato avvenuto, la Segreteria di Stato Usa invia in Italia il suo
funzionario Steve Pieczenik a dirigere «l’unità di crisi» che, avallata dal
primo ministro dell’epoca Giulio Andreotti e comprendente l’allora ministro
dell’Interno Francesco Cossiga, decideva la linea da tenere nei confronti delle
Brigate Rosse e delle condizioni da loro poste per liberare l’ostaggio.
Uno dei compiti, anch’esso riuscito in pieno, ammesso dall’americano era far
credere ai giornali e all’opinione pubblica che le molte lettere scritte da Moro
durante la prigionia, ricche di accuse ai politici, non erano spontanee, bensì
frutto di un «lavaggio del cervello», e che quindi non se ne doveva tenere
conto. Tutti i giornali fecero infatti a gara a delegittimare il contenuto delle
molte lettere di Moro recapitate dai brigatisti a familiari e collaboratori del
rapito nonché ad alcune redazioni.
La strategia impostata dall’esperto «amerikano» ricalcava fedelmente quanto
previsto dal Field Manual redatto nel 1970 dalla Cia per definire il
comportamento Usa verso i propri alleati in caso di loro gravi crisi. Si tratta
di una strategia che definisce il terrorismo «fattore interno stabilizzante»,
secondo il principio «destabilizzare al fine di stabilizzare». E che non si fa
scrupolo di prevedere la strumentalizzazione di eventuali gruppi eversivi dei
Paesi alleati se essa può risultare positiva per gli interessi americani.
Leggiamo ora cosa ha detto Pieczenik in una intervista all’«Italy Daily» del
16 marzo 2001 riguardo il suo compito durante il sequestro Moro: “Stabilizzare
l’Italia, in modo che la Democrazia Cristiana non cedesse… e assicurare che il
sequestro non avrebbe condotto alla presa del governo da parte dei comunisti… Il
mantenimento delle posizioni della DC: quello era il cuore della mia missione.
Nonostante tutte le crisi di governo, l’Italia era stato un Paese molto stabile,
saldamente in mano alla DC. Ma in quei giorni il Partito comunista di Berlinguer
era molto vicino a ottenere la maggioranza, e questo non volevamo che accadesse…
Io ritengo di avere portato a compimento tale incarico. Una spiacevole
conseguenza di ciò fu che Moro dovette morire… Nelle sue lettere Moro mostrò
segni di cedimento. A quel punto venne presa la decisione di non trattare.
Politicamente non c’era altra scelta. Questo però significava che sarebbe stato
giustiziato… Il fatto è che lui, Moro, non era indispensabile ai fini della
stabilità dell’Italia”.
Più chiari e cinici di così!
Intervistato per il quotidiano «l’Unità» del 9 maggio 2007 dal giornalista
Marco Dolcetta, ecco cosa ha detto «l’amerikano » inviato dalla Segreteria di
Stato ripetendolo inoltre nel suo libro dal titolo quanto mai esplicito “Noi
abbiamo ucciso Aldo Moro”, edito in Francia da Patrick Robin:
” Il primo punto della mia strategia consisteva nel guadagnare del tempo,
mantenere in vita Moro e al tempo stesso il mio compito era di impedire l’ascesa
dei comunisti di Berlinguer al potere, ridurre la capacità degli infiltrati nei
Servizi e immobilizzare la famiglia Moro nelle trattative. Cossiga non gestiva
interamente la strategia che volevo sviluppare.[...] Fra gli altri, i
simpatizzanti di estrema sinistra comprendevano anche i figli di Bettino Craxi e
una delle figlie di Moro […].
Lessi le molte lettere di Moro e i comunicati dei terroristi. Vidi che Moro
era angosciato e stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive per
l’Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva prevalere la Ragione di Stato
anche a scapito della sua vita. Mi resi conto così che bisognava cambiare le
carte in tavola e tendere una trappola alle Br. Finsi di trattare.
Decidemmo quindi, d’accordo con Cossiga, che era il momento di mettere in
pratica una operazione psicologica e facemmo uscire così il falso comunicato
della morte di Aldo Moro con la possibilità di ritrovamento del suo corpo nel
lago della Duchessa. Fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla
e furono spinti così all’autodistruzione. Uccidendo Moro persero la battaglia.
Se lo avessero liberato avrebbero vinto. Cossiga ha approvato la quasi totalità
delle mie scelte e delle mie proposte e faceva il tramite con Andreotti
[…]. Sono stato io a decidere che il prezzo da pagare era la vita di Moro.
[...] Cossiga era sempre informato sulla mia strategia e non poteva fare altro
che accettare. Le Br invece potevano fermarsi in un attimo ma non hanno saputo
farlo o voluto”.
Insomma, mettere nel sacco Le Br ed eliminare Moro: due piccioni con una
fava.
Riguardo le responsabilità quanto meno morali di Cossiga nella volontà
politica di fare uccidere Moro, mi sono casualmente imbattuto in due testimoni
di eccezione: un gesuita confessore della chiesa del Gesù in piazza del Gesù a
Roma e l’ex confessore di Cossiga ai tempi del sequestro Moro. Cominciamo dal
gesuita.
«Lo stesso attentato a Moro, no? La prigione di Moro».
«Sì?»
«Erano arrivati alla casa vicina a dove stava lui. Hanno avuto l’ordine di
fermarsi. Lo so perché un mio alunno faceva parte di queste cose qui. Me lo ha
detto lui: “Noi abbiamo avuto l’ordine di fermarci e tornare indietro”. Erano
arrivati a pochi… A venti metri erano arrivati. Quindi lo sapevano benissimo.
Cioè, lo sapevano. Setacciando casa per casa, alla fine lo dovevano trovare».
«Via Montalcini?»
«Adesso non so perché io non sono addentro alle segrete cose. Però questo me
lo ha detto un mio alunno che stava lì, insomma, ecco, faceva parte di quelli
lì. Hanno dovuto rimettere, capito? Ma non parliamo male che non è questa né la
sede né il luogo né il caso».
Questa è una parte del mio dialogo al cardiopalma con un gesuita confessore
della Chiesa del Gesù in uno dei primi giorni dell’agosto 1993. Stavo scrivendo
il libro Tangenti in confessionale, spacciandomi nei confessionali delle chiese
più rappresentative d’Italia – dal duomo di Torino alla basilica di S. Pietro in
Vaticano fino a S. Gennaro a Napoli – per un politico che accettava le mazzette
dagli industriali e a volte, al contrario, per un industriale che le pagava ai
politici.
Dalle risposte dei preti confessori volevo capire e documentare il
comportamento e l’influenza della Chiesa nei confronti di un fenomeno come
quello della corruzione e delle tangenti, troppo diffuso per esserle ignoto. E
infatti…
Mi «confessavo» con un mini registratore avvolto in un giornale tenuto in
mano perché stesse il più vicino possibile alla bocca dei religiosi. La tarda
mattinata di un giorno tra il 2 e il 4 agosto sono andato nella chiesa del Gesù,
in piazza del Gesù. Una scelta dovuta al fatto che in quella piazza c’era la
sede della direzione nazionale della Democrazia Cristiana e al fatto che in
quella chiesa Andreotti andava a messa quasi ogni mattina, dove presumevo si
confessasse anche. Inoltre, proprio a soli 150 metri di distanza, nella vicina
via Caetani, era stato lasciato a suo tempo il cadavere di Moro trasportato da
via Montalcini con una Renault rossa. Più simbolismi di così!
Entrato in chiesa, mi sono diretto verso il primo confessionale a destra,
dove c’era un religioso in attesa di penitenti. Non avrei immaginato neppure da
lontano che il discorso sarebbe piombato nel caso Moro, e in modo così
tranchant: io parlavo di tangenti e il confessore per dirmi che era un andazzo
molto noto e tollerato mi stava dicendo che era noto tanto quanto a suo tempo il
luogo della prigione di Moro!
Il cuore m’è schizzato in gola e ho cominciato a sudare non solo per il
caldo. La storia che mi ha raccontato quel gesuita è la seguente: «Un mio ex
alunno si era arruolato nella polizia ed era entrato nel corpo delle “teste di
cuoio”. Un giorno è venuto a chiedermi l’autorizzazione morale per infiltrasi
nelle Brigate Rosse, voleva cioè sapere da me se l’infiltrarsi era morale o
immorale. Gli dissi che era morale. Passato del tempo, quel mio ex alunno è
tornato da me schifato.
Mi ha raccontato che mentre stavano andando a liberare Moro ed erano arrivati
a una ventina di metri dalla sua prigione, all’improvviso ricevettero l’ordine
di tornare indietro. Il mio ex alunno rimase talmente schifato che si è dimesso
dalla polizia. Ora lavora nella falegnameria del padre».
Chiaro quindi che si trattava della prigione di via Montalcini, altrimenti
non si spiegherebbero lo schifo e lo scappar via dalla polizia.
Ero sconvolto. Ma uno o due giorni dopo sarei rimasto ancora più sconvolto.
Sono andato infatti a confessarmi anche nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina,
nella omonima piazza, scelta perché in quella piazza aveva il suo storico
ufficio privato l’ancor più storico Andreotti. Mi si è presentato un parroco con
i capelli a spazzola e l’accento pugliese. Anziché nel confessionale, mi ha
sorpreso facendomi accomodare in sagrestia, seduti uno di fronte all’altro su
banali sedie e separati da nulla.
Ero teso perché temevo si capisse che il giornale che stringevo nervosamente
in mano nascondeva quello che nascondeva. Ma a un certo punto ho rischiato di
cadere dalla sedia: quel parroco – anche lui per consolarmi dicendo che il
fenomeno delle mazzette era noto e tollerato quanto certi «misteri» del caso
Moro – mi stava dicendo che era stato il confessore di Cossiga all’epoca del
sequestro Moro!
«Quando, durante l’affare Moro, Cossiga era ministro degli Interni e lo
confessavo io, in quel frangente dicevo: “Professore, io la posso solo assolvere
dei suoi peccati. Ma la situazione sua se la deve andare a sbrigare da qualche
altro”. Allora c’era Ferretto, c’era Dossetti [compagni d’Università di Moro che
dopo avere fatto politica hanno infine scelto la vita in convento, ndr]. Dicevo:
“Vada a sentire loro. Perché, anche, loro sono quelli che, avendo fatto carriera
con lei, con Moro e col partito, a un certo punto hanno fatto un’altra scelta,
possono aiutarla adesso”. A questo tipo di sollecitazione lui diceva: “Lascio
perdere tutto”».
Tradotto in linguaggio comune, il suo ex confessore mi stava dicendo che
Cossiga aveva un enorme peso sulla coscienza per le scelte fatte. Lo
straordinario racconto del parroco di S.Lorenzo in Lucina confermava in pieno
non solo quanto più volte più o meno chiaramente trapelato e in parte
ambiguamente ammesso dallo stesso Cossiga, ma anche quanto raccontato
dall’«amerikano» Pieczenik, all’epoca assai poco noto in Italia e a me del tutto
ignoto.
Le due confessioni hanno avuto un seguito ciascuna. Il primo è che ho scritto
a Cossiga chiedendo lumi sulle pesanti parole del suo ex confessore e ne ho
ricevuto la seguente risposta:
«Caro Nicotri, si tratta di una faccenda troppo importante per lasciarla
trattare a un prete».
Il secondo è che dopo la pubblicazione del mio libro, il pubblico ministero
Franco Jonta mi ha convocato per interrogarmi e chiedermi chi fosse esattamente
quel confessore. Nonostante il tono perentorio del magistrato, con velata
minaccia di guai giudiziari, ho opposto il segreto professionale, specificando
però che ero disponibile a rispondere, ma solo dopo che l’Ordine dei giornalisti
mi avesse sciolto, su mia richiesta, dall’obbligo del segreto.
Tornato a Milano, ho chiesto per iscritto di esserne sollevato data
l’importanza dell’argomento e della mia testimonianza. Ottenuto il permesso,
sono stato riconvocato a Roma da Jonta, e questa volta gli ho portato una copia
del nastro con il dialogo nel confessionale. Man mano che ascoltava il nastro il
magistrato si incupiva sempre di più. E ogni tanto continuava a ripetermi: «Ma
non le sembra strano?» Ho cominciato a sentirmi a disagio, e a un certo punto ho
temuto che magari venissi accusato di avere falsificato il nastro. All’ennesimo
«Ma non le sembra strano?» mi sono stufato e ho ribattuto: «A me sembra strano,
anzi stranissimo, però la sua è una domanda che dovrebbe rivolgere non a me, ma
al confessore».
Silenzio di gelo.
Finito il nastro Jonta guardandomi in modo che mi è parso ostile mi ha
chiesto: «E chi sarebbe questo confessore?»
«Credo lei volesse dire “chi è” e non “chi sarebbe”. Comunque la risposta è
semplice: quello che riceve nel primo confessionale a destra entrando in
chiesa», ho risposto specificandone anche il cognome: «C’è affissa una targhetta
in ottone con scritto come si chiama il confessore e gli orari durante i quali è
presente».
«E che lo interrogo a fare? È chiaro che mi opporrà il segreto del
confessionale».
«Be’, ma scusi, dottor Jonta, per arrivare a questa conclusione non c’era
bisogno di farmi sciogliere dall’obbligo del segreto e farmi tornare a Roma. Ma
se non intende interrogarlo, qual è il motivo per cui ne vuole sapere il nome?
Qualcuno vuole forse chiedere anche a lui di tacere?»
«Ma come si permette!»
«Guardi che quel confessore non può assolutamente accampare il segreto perché
ha detto chiaro e tondo, come lei ha sentito ascoltando il nastro, che il suo ex
alunno in realtà non è andato a confessarsi, a parlare cioè dei propri peccati,
ma solo a chiedergli un consiglio. Lei perciò può e anzi deve interrogarlo. E se
non risponde lo può anche arrestare o comunque mandare sotto processo. Proprio
come ha minacciato di fare con me. O devo pensare che secondo lei io ho meno
diritti del gesuita?»
«Nicotri, guardi che qui cosa fare lo decido io. Lei non può certo starmi a
dire cosa devo o non devo fare».
«Con la sua coscienza se le vede lei. Comunque guardi che questa è l’unica
occasione di chiarire finalmente la bruttissima faccenda della mancata
liberazione di Moro. E in ogni caso, confessore o non confessore, è sicuro che
non ce ne sono tante di ex teste di cuoio figli di falegnami infiltrate nelle
Brigate Rosse e scappate dalla polizia dopo la faccenda Moro per andare a fare
il falegname dal papà. Se questo ex poliziotto lo cercate, lo trovate di sicuro.
Se lo volete trovare, naturalmente».
«Ah, ma allora lei non vuole capire! Qui comando io, e lei non deve
assolutamente dirmi cosa cavolo devo fare!»
Conclusione? La prima è che sono uscito dal palazzo di Giustizia
vergognandomi. Vergognandomi della mia disponibilità con il magistrato. E
vergognandomi d’essermi fatto sciogliere dall’obbligo del segreto. Mi sentivo
molto a disagio, in imbarazzo con me stesso. La seconda conclusione: è chiaro
come il sole che NON si è voluto chiarire il «mistero» della prigione di Moro.
Esattamente come a suo tempo non si voleva che la si trovasse. I «consigli» di
Pieczenik parlano chiaro. I pesi sulla coscienza e le ammissioni di Cossiga
anche. Il cadavere di Moro pure.
di Pino Nicotri (9 marzo 2014, BlitzQuotidiano.it)
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