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Biagi, la vedova e la scorta negata: 'Marco lasciato solo
dallo Stato'
Empoli, 15 dicembre 2013 - Maglione e pantaloni scuri, un foulard verde che
si toglie quasi subito perché l’aula è stracolma di studenti, e fa caldo. Al
dito la fede, simbolo di una promessa eterna. Marina Orlandi, la vedova di Marco
Biagi, il giuslavorista ucciso il 19 marzo di undici anni fa sotto casa dalle
Brigate Rosse, ieri mattina domenica 14 dicembre, superando la sua proverbiale
riservatezza, si è concessa agli studenti dell’istituto superiore Fermi di
Empoli. Il tramite di questo eccezionale incontro è stata una studentessa,
figlia di amici della famiglia Biagi.
La signora Orlandi ha detto di sì e da Bologna, dove abita, è scesa in
Toscana. Niente di preparato, ha parlato a braccio per quasi due ore, regalando
alla platea di alunni delle quinte anche ricordi intimi del professore
universitario, consulente di vari ministri e padre del Libro Bianco sul mercato
del lavoro. "Cari ragazzi - ha esordito - sono qui per raccontarvi di mio
marito, padre di due figli che quando fu ucciso avevano 19 e 13 anni, più o meno
la vostra età". Subito è calato un silenzio surreale. Senza alcuna reticenza ha
ripercorso quella tragica sera. "Era il 19 marzo 2002 -ricorda con voce ferma e
gli occhi lucidi - Marco tornava a casa in bici dopo essere sceso dal treno
preso a Modena, dove insegnava all’Università. Erano le 20 e 10, quattro-cinque
vigliacchi lo aspettavano.
Gli hanno sparato sei colpi. La sera precedente mi riferì le sue
preoccupazioni per quella scorta che il ministero gli aveva tolto nonostante
ricevesse minacce. Si domandava se non fosse il caso di mollare tutto, ma allo
stesso tempo era convinto che non poteva smettere proprio ora. Mi disse: ‘Mi
trovo al momento giusto e nel posto giusto per riuscire a fare qualcosa che
aiuti i disabili, le donne e chi perde il lavoro a 40 anni... No, non posso
smettere". La risposta della moglie Marina fu la sola possibile: "Lo incoraggiai
ad andare avanti...".
E poi, con un fil di voce: "Se avessi saputo che 24 ore dopo sarebbe morto lo
avrei legato alla sedia". "Marco - spiega la moglie, docente universitaria - è
stato ucciso perché si occupava di lavoro, di precariato: temi delicatissimi,
che hanno messo a rischio la vita di coloro che li hanno trattati, come Massimo
D’Antona, anche lui consulente del governo e anche lui ucciso. Eppure quello
stesso Stato che si serviva di lui, lo ha lasciato solo. Mio marito è morto per
la superficialità colpevole di chi avrebbe dovuto proteggerlo e non lo ha fatto.
Quella di Marco è stata una morte annunciata".
Marina Orlandi non odia, ma si sente offesa "da quei politici che per
arraffare voti e consensi dicono che Biagi è il responsabile della precarietà
nel nostro Paese. Marco lavorava a una riforma del mercato del lavoro: aveva
intuito che sarebbero arrivati tempi duri e che il posto fisso sarebbe andato
scomparendo. Voleva tutelare i diritti delle generazioni future che senza una
riforma seria avrebbero rischiato di lavorare in nero".
Irene Puccioni (15 dicembre 2013, La Nazione)
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