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Terrorismo a Genova. Enrico Fenzi e il rapimento Sossi:
sangue e memoria
GENOVA – Enrico Fenzi, prima d’ora non aveva mai parlato in pubblico a Genova
della sua storia brigatista, della sua militanza nel partito armato negli “anni
di piombo”, dei suoi processi, della sua condanna, della sua dissociazione, di
quel che erano gli uomini della “stella a cinque punte”, che avevamo tenuto in
scacco lo Stato, rapito e ucciso Aldo Moro, il presidente della Dc.
Enrico Fenzi era stato inghiottito prima dal carcere duro, dai processi a suo
carico, dalla condanna definitiva a 18 anni, poi dal suo pentimento che non
c’era mai stato, poi dal silenzio e dalla mimetizzazione nei caruggi di Genova,
da dove era partita la sua “banda armata” e dove era tornato “dopo”, come
antiquario, poi come ristoratore, sempre come professore, ex docente alla
Facoltà di Lettere, esperto di Dante e Francesco Petrarca, ex maestro, anzi
bollato per sempre come “cattivo maestro” di una generazione sessantottina e poi
“rivoluzionaria”.
E di colpo, in fondo a uno dei saloni storici del Palazzo Ducale genovese ,
in fondo al pubblico, alla fine della presentazione di un libro sulla colonna
genovese delle Br, è spuntato in piedi Enrico Fenzi, il “professore”, oggi quasi
settantacinquenne e ha chiesto di parlare, il maglione scuro, il volto pallido,
la voce un po’ emozionata per commentare quella storia appena raccontata sulle
Br di cui aveva fatto parte.
“E’ la prima volta che parlo in pubblico di questo “ – ha annunciato davanti
a duecento persone, all’autore del libro, Andrea Casazza, giornalista del
“Secolo XIX” e agli altri relatori di quella presentazione, Gad Lerner, Giuliano
Galletta, critico letterario, anche lui giornalista de “Il Secolo XIX “ e Cesare
Manzitti, avvocato, difensore di imputati coinvolti in quei lontani processi
anni Settanta-Ottanta, quando Genova era in cima alle cronache del terrorismo.
Il libro è intitolato “Gli imprendibili” e lo ha stampato la casa editrice
“Derive e Approdi”, un tomo di 500 pagine, che per la prima volta cerca di
ricostruire la storia di quella colonna Br che rapì Mario Sossi e uccise il
procuratore della Repubblica Francesco Coco e la sua scorta e giustiziò altri
servitori dello Stato di polizia e carabinieri e l’operaio e sindacalista dell’Italsider
Guido Rossa, che aveva denunciato un “postino” dei terroristi, sequestrò e
gambizzò e tenne in scacco Genova per quasi un decennio nel segreto più
impenetrabile, svelato solo quando i primi pentiti squarciarono il velo del
terrore.
Enrico Fenzi era uno di questi “imprendibili”, anche se a Genova era stato
già arcinoto, un “maestro” della “rivoluzionaria” Facoltà di Lettere, uno di
quelli che esaminava gli studenti a gruppi e fiancheggiava politicamente le ali
più estreme dei partiti, allora chiamati extraparlamentari. E anche se era
incappato in un blitz rimasto famoso, perché catturò nel 1979 una quindicina di
presunti brigatisti rossi, caduti nelle maglie dei carabinieri del generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi tutti assolti in primo grado nel famoso processo
che lo stesso generale avrebbe bollato come l’”ingiustizia che assolve”, aveva
fatto carriera nel partito armato, fino alla sua cattura a Milano, insieme con
uno dei killer di Aldo Moro, il terribile Mario Moretti.
Si alza e parla quasi quaranta anni dopo tutto questo, dopo il sangue, la
morte, il terrore, gli equivoci di Genova, della sinistra, degli album di
famiglia del Pci, le catture e i processi, Enrico Fenzi “perchè deve levarsi
qualche sassolino dalle scarpe” e vuole dire la sua verità, davanti a quel
pubblico “informato sui fatti”, ma lontano anni luce da quel tempo, perchè oggi
siamo in un altro tempo, truce come quello, ma macchiato di altri colori.
“Non è vero che mi è stato perdonato tutto “- incomincia Fenzi con il suo
tono da ex professore che alza la voce per la prima volta – sono stato
condannato a 18 anni e ne ho scontati diciassette, di cui sette più tre in
galera e gli altri con altre misure. Ho pagato abbondantemente, ma non sono mai
stato reintegrato nel mio lavoro e non mi sono mai stati restituiti i diritti
civili”.
Fenzi ha un tono duro, ma quasi non rivendicativo, come di chi vuole uscire
da una cappa di buio che lo ha coperto per questi quaranta anni in cui il mondo
è cambiato, ma lui è rimasto sotto la cappa di una specie di condanna
permanente, dopo essere uscito dalle Br, come se ne può uscire senza essersi
pentito, ma da dissociato critico, capovolto rispetto a come era entrato nella
clandestinità, nella lotta armata, a fianco dei killer, di quelli che sparavano,
uccidevano e gambizzavano per fare la rivoluzione.
Troppo tempo è passato e Fenzi in quel salone dove il ricordo difficile da
ricostruire della colonna genovese delle Br, quella sgominata nel 1980, in
quell’appartamento di via Fracchia, sulle alture di Oregina, dove sempre gli
uomini del generale dalla Chiesa, con le chiavi della casa consegnate dal
pentito numero uno, Patrizio Peci, entrarono sparando con i fucili a pompa
attraverso i muri e “seccando” Riccardo Dura, il capo colonna di 29 anni e Anna
Maria Ludmann, l’ineccepibile professorina di 32, e Lorenzo Betassa di 25 anni e
Roberto Panciroli di 28, “gli imprendibili”, di cui mai si era conosciuto il
nome e il volto, malgrado sparassero e uccidessero da anni, appunto Enrico Fenzi
in quel salone sembra una icona del passato, crocefisso alla sua colpa, ma anche
a una memoria che non si può cancellare, seppure collocata in un altro mondo.
Passato e sepolto.
Ci ha provato l’autore del libro a spiegare il suo grande sforzo di
ricostruire quegli anni e quei protagonisti, quella storia attraverso gli atti
processuali e le testimonianze e gli intrighi delle inchieste spericolate e
delle sentenze conclusive. E gli hanno detto che il suo non è un libro di
storia, ma il documento preciso, perfino minuzioso, di una vicenda raccontata da
un cronista che tenta una cronaca trenta anni dopo i fatti.
Fenzi non ci sta del tutto a quella ricostruzione, a quei commenti, che
approva, ma che vuole in parte rettificare, perchè la storia va messa a posto e
lui sta zitto da quasi tutta la vita. Era un quarantenne allora, nel 1979,
quando i carabinieri gli puntarono i fari addosso e uno dei primi rapporti di
polizia lo descrive così come Andrea Casazza riporta nel suo libro:
“Fenzi Enrico, 40 anni, è alto un metro e settanta, è di media corporatura, è
praticamente calvo nella parte anteriore del cranio, ha i capelli grigi, lunghi,
un po’ arricciati, sul collo e arruffati sopra le orecchie e non ha inflessioni
dialettali, parla in perfetto italiano con scioltezza e proprietà, veste in
maniera sportiva (jeans e pantaloni di velluto, mocassini tubolari, magliette
tipo Lacoste) è professore di italiano all’Università di Genova, è nativo di
Bardolino( Verona), è separato dalla moglie Chelli Maria Grazia, è stato più
volte perquisito.”
Non ci sta del tutto Fenzi, perchè la storia delle Br di cui tutti hanno
scritto e tutti hanno parlato e straraccontato “ non si può fare solo attraverso
la cronaca giudiziaria, la storia di quello che sono state le Br nessuno l’ha
mai scritta.”
Ecco nella sala un po’ attonita del palazzo Ducale, nel giorno in cui i
“forconi” bloccano la città, con una rivoluzione così diversa da quella di
quaranta anni prima imposta dalle Br, un nucleo armato fatto di poche decine di
persone (così si racconta negli “Imprendibili), ecco che il prof torna in
cattedra, con tono sommesso, sofferente:
“Un sassolino dalle scarpe proprio vorrei levarmelo, perché sono diventato
io, Fenzi, l’ombrello sotto il quale si sono protetti tutti, tra catture e
processi. Va bene, mi sono dissociato, ma non ho aggiunto nulla a quello che gli
altri raccontavano sulle Br, cento, duecento volte. Ero il più vecchio, ero un
professore e mi hanno usato così…. ma la storia non è solo quella che è stata
ricostruita a questo modo….”
E allora quale sarà questa storia da risistemare? Fenzi elenca anche un po’
polemico e quasi sfuggente quello che la cronaca giudiziaria non può sistemare,
non può storicizzare:
“ Mi hanno minacciato in cella che non avrei visto il giorno dopo se non
ignoravo quel particolare a cui loro tenevano……hanno nascosto una pistola in
casa mia per accusarmi nel processo del blitz…….ci sono verità che sono rimaste
sepolte, mentre veniva distrutta la colonna veneta delle Br e si liberava il
generale americano Dozier e i brigatisti catturati venivano torturati con un
sistema anche legalizzato e tutti si pentivano e parlavano e la colonna genovese
veniva scoperchiata dalle rivelazioni di Bozzo e Cristiani…..che avevo di più da
dire io, da aggiungere…..”
Sono veramente pezzi di storia questi sassolini che Fenzi si leva dalle sue
scarpe di oggi, di uno che oramai da decenni è “fuori” e ha tentato invano una
risalita?
“Avete raccontato di quello yactht che era partito da Tripoli del Libano e
aveva portato sull’Adriatico quattro tonnellate di armi non solo per la colonna
genovese, ma per tutte le colonne italiane: quella barca era dello Olp di
Arafat.”
Fenzi mescola la storia con la “sua” storia.
“Ho testimoniato, ho aiutato Giuliano Naria [il brigatista accusato
erroneamente di avere ucciso Francesco Coco, il Pg di Genova l'8 giugno del
1976], ho aiutato Sergio Adamoli,[il figlio del famoso sindaco comunista della
Genova anni Cinquanta]. Che avevo da aggiungere? Per come mi sono comportato ho
dovuto scontare più anni di carcere di quelli che mi spettavano.”
La penultima parola del prof delle Br è per Francesco Berardi, il “postino”
che faceva propaganda dentro all’Italsider, distribuendo volantini Br e che, una
volta “beccato”, aveva fatto il suo nome agli inquirenti e che finì suicida,
impiccato in cella nel supercarcere di Cuneo. Fenzi ci tiene forse a dimostrare
in pubblico che non ha mai avuto nulla contro quella figura piccola e tragica
del postino, anche se fu Berardi a tirargli dietro i segugi di Dalla Chiesa,
dopo l’omicidio di Guido Rossa, giustiziato per avere deposto in udienza contro
lo sciagurato postino. “Lui si è veramente giocato la vita e non possso
dimenticarlo.”.
L’ultima parola di Fenzi è, invece, una citazione letteraria e come non
poteva essre diversamente per un professore dalla carriera troncata che ogni
volta che tenta di riemergere, magari in un convegno sul Petrarca, di cui
continua ad essere uno studioso fine e raffinato, viene subito censurato da chi
non dimentica? La citazione è per “Pentescoste”, la poesia di Alessandro Manzoni,
che invoca la luce che cada sui “vari color”.
Per quest’uomo, oramai anziano, spezzato ma resistente al tempo, al logorio
dei processi, delle accuse, al peso di una storia cancellata dalla memoria, ma
ancora in grado di fare male, ogni volta che riemerge con la sua caterva di
lutti e di sofferenze, quella sulla luce è una invocazione che il pubblico,
arrivato a seguire la presentazione del libro, accoglie con una specie di timido
applauso.
In quella sala ci sono molti reduci di un tempo macerato dai ricordi, con i
famigliari delle vittime, silenziosi, con i compagni di strada nelle frange di
Autonomia Operaia, di Lotta Continua, dei gruppi border line, tra l’estremismo
verbale dei partiti extra e il partito veramente armato, con i cronisti
dell’epoca, con un pubblico genovese, quasi sperduto in quella memoria. E così,
dopo lo sfogo del professore, chi arriva a spingere le spine nelle ferite di
questa lunga memoria mezza perduta, mezza irrisolta?
Arriva il figlio di un alto magistrato dell’epoca, Beniamino De Vita, che fu
indirettamente vittima di quel terrorismo, quando, da presidente della Corte
d’Assise d’Appello, durante il sequestro del magistrato Mario Sossi, emise un
provvedimento che consentiva di liberare i cosidetti “nonni delle stesse Br,”
gli esponenti della banda XII Ottobre, condizione richiesta per non giustiziare
lo stesso Sossi.
“Sono il figlio di un magistrato che è stato lasciato solo dallo Stato
davanti al ricatto dei terroristi” – racconta, questo figlio, che esce da
un’ombra molto più assoluta di quella da cui è risbucato Fenzi. Anche questa è
una testimonianza che arriva non solo fuori tempo massimo, ma come da un altro
mondo, oggi quasi extraterrestre, perchè rievoca uno scontro, quello tra il
terrorismo e i giudici che è seminato di croci in un cimitero dimenticato. Altro
che i match berlusconiani con i giudici!
Fuori dal Palazzo Ducale, dove queste memorie muovono antichi brividi, ci
sono i rimbombi della nuova rivoluzione, quella dei Forconi. che hanno bloccato
la città, paralizzato il suo traffico, fatto tremare i palazzi con le bombe
carte.
di Franco Manzitti (10 dicembre 2013, BlitzQuotidiano.it)
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