“Quel giorno ero in via Montalcini e arrivò l’ordine di non
intervenire”
Giovanni Ladu, ex brigadiere della Finanza in pensione da un anno e mezzo,
vive a Novara. Il suo nome è venuto alla ribalta in occasione della
pubblicazione del libro dell’ex giudice Ferdinando Imposimato al quale Ladu si
era rivolto anche con un’altra identità, quella di un fantomatico Oscar Puddu,
per rafforzare la tesi del mancato blitz nel covo delle Brigate Rosse in cui era
prigionieroMoro. L’ex magistrato, dopo la pubblicazione del libro, si è rivolto
alla Procura di Roma sollecitando nuove indagini. C’è voluto poco per scoprire
che Ladu (foto) e Puddu sono la stessa persona. Ora l’ex finanziere è indagato
per calunnia.
Respinge l’etichetta di «calunniatore». Giovanni Ladu, ex brigadiere della
Guardia di Finanza, parla per la prima volta accanto ai suoi difensori, gli
avvocati Gianni Correnti e Giorgio Legnazzi. Nel 1978, nei giorni del sequestro
Moro, era un bersagliere di leva. È indagato dalla Procura di Roma perché
sostiene che lo Stato era a conoscenza della prigione dello sta- tista ed ha
fatto un passo indietro due giorni prima che venisse ritrovato nella Renault
rossa in via Cae- tani. Lui, con altri gruppi pronti al blitz per liberare il
leader Dc, ga- rantisce che il 7 maggio era in via Montalcini. Dall’«alto»
arrivò l’or- dine che l’ex giudice Imposimato, nel libro «I 55 giorni che hanno
cambiato l’Italia» traduce in una denuncia-bomba: la liberazione fu impedita da
Cossiga e Andreotti. Imposimato solo a libro stampato si è affidato alla
Procura. Ladu, la sua è una verità contestata. «Le e-mail a Imposimato sono
state mandate dal 2012 a maggio di quest’anno però quei fatti del ’78 sono stati
resi noti ai miei superiori, inizialmente a voce al mio comandante Alessandro
Falorni. Dopo le opportune verifiche è stato contattato il giudice che si era
occupato del caso Moro».
Lei ha iniziato a raccontare questi fatti nel 2008,perché solo allora? Temeva
una rappresaglia? «Sì, anche perché quando finì tutto, ci era stato detto di
dimenticare quello che era successo».
Ma lei chi era in quei giorni? «Avevo 19 anni, l’anno primo avevo finito il
diploma. Ero in servizio di leva obbligatoria ai bersaglieri della caserma
Valbella, ad Avellino».
Vi avevano preparato a questa missione? «Inizialmente no. Ci hanno imbarcato
su un pullman “dovete andare a Roma”. Sulle prime ci portano alla caserma dei
carabinieri vicino all’hotel Ergife».
Sapevate che c’erano altri gruppi pronti a intervenire in quella che sarebbe
risultata la prigione di Moro? «Inizialmente no. Poi prendiamo possesso di un
appartamento adiacente allo stabile dove, scopriremo poi, c’era Moro. Eravamo
dieci militari, non in divisa. Non avevamo attrezzature di ascolto (queste
attrezzature sono state poi messe in una cascina abbandonata che era di fronte
al palazzo, lì c’era una postazione di controllo già predisposta prima che
arrivassimo. Noi dovevamo solo verificare chi entrava e usciva, se c’erano
persone sospette».
Quando avete intuito che poteva essere il covo? «Ci avevano detto che c’era
un noto personaggio in quell’appartamento, messo in condizione di non uscire.
Moro era stato rapito il 16 marzo, in Italia si parlava solo di quello».
E arriva il 7maggio 1978, con l’ordine di smobilitare senza liberare il
«personaggio». In seguito scoprirete che là dentro c’era proprio il presidente
della Dc. «Certo, leggendo i giornali. Io mi sono anche strizzato sotto.
Rientrato ad Avellino sono stato desti- nato subito al reggimento, alla caserma
dei bersaglieri di Persano (Salerno)».
I dieci commilitoni non li ha più sentiti? «No, non so nemmeno che fine
abbia- mo fatto. Nessun contatto».
Dopo trent’anni, nel 2008, decide di parlare. Perché? «Ogni anno, in
occasione dell’anniversario dell’uccisione di Moro, venivano riferite falsità».
Non ha mai cercato di «vendere» la sua verità? «Assolutamente no, all’epoca
ero ancora in servizio. Non ho avuto, né cerco compensi. Ho fatto i miei
passaggi rivolgendomi ai miei superiori gerarchici, loro hanno poi informato il
procuratore di Novara Francesco Saluzzo al quale ho fornito un memoriale di tre
pagine. Non ho fatto alcun nome, nessun riferimento ai vertici dello Stato. Ho
soltanto indicato i fatti di cui sono a conoscenza. E non sono state ravvisate
ipotesi di calunnia perché nel 2011 questo procedimento è stato archiviato».
Lei, in questa prima fase, è Giovanni Ladu.Poi nel 2012si ripresenta con il
nome fittizio di Oscar Puddu. Al punto che Imposimato ci casca, pensa che Ladu e
Puddu siano due persone distinte. Perché questo espediente? «Volevo che si
riaprisse il caso, per venire a capo di questa vicenda. L’ex giudice faceva
delle domande, io rispondevo. Ci siamo scambiati 84 mail, da privato a privato.
Io ero in pensione dalla Finanza, Imposimato dalla magistratura».
Imposimato, anche sulla base della sue rivelazioni, arriva a scrivere che
«Moro fu vittima della ferocia delle Br ma anche di un complotto ordito da
Andreotti e Cossiga». «Mai fatti quei nomi, sono conclusioni di Imposimato..
Lui mi chiese se erano al corrente dell’ipotesi di un blitz e della decisione di
fermarlo».
Il figlio di Cossiga ha definito le sue ricostruzioni da «trattamento
sanitario obbligatorio ». «Non sono matto, né mitomane. E non ho mai detto che
Cossiga ha ordinato quel delitto».
E a chi parla di depistaggio, cosa risponde? «Nessuna intenzione di alzare
polveroni o coprire qualcuno, chiedo l’opposto: che si arrivi alla verità. Non
volevo nemmeno tutto questo clamore. Quando ho visto il mio nome nel libro di
Imposimato mi sono pure arrabbiato. Ho fatto tutto questo anche contro il volere
della mia famiglia ma sentivo che dovevo togliermi un peso. Tutti gli altri
hanno seguito l’ordine di dimenticare, io non ci sono riuscito».
Carlo Bologna (4 Dicembre 2013, La Stampa ed. Novara)
|