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La figlia di Moro all'ex brigatista "La condanna non
restituisce giustizia"
Agnese, figlia dello statista ucciso dalla BR, incontra a Tursi Franco Bonisoli,
uno dei terroristi che partecipò al sequestro del padre. Dissociato dalla lotta
armata spiega: "Sbagliammo i metodi, ma restano validi i valori che hanno
ispirato l'intenzione di cambiare il mondo"
Il Giusto è Aldo Moro, sottolinea Nando dalla Chiesa; e Moro è la figura che
lega la donna con i capelli grigi e ricci, e l'uomo con la camicia azzurra che
le siede accanto, nel cortile di Tursi. Lei è Agnese Moro, figlia dello statista
che l'uomo, Franco Bonisoli, allora membro della direzione strategica delle BR,
ha rapito in via Fani dopo aver sterminato la sua scorta.
E' la prima volta che i due, che si sono già incontrati più volte
privatamente, si confrontano davanti al pubblico, in una serata dal titolo
"Cercando la giustizia più in là" inserita nella Settimana Internazionale dei
Diritti curata da Nando dalla Chiesa per il Comune di Genova e dedicata ai
"Giusti".
"Mi ha colpito il dolore che c'è dentro di lui", dice la Moro, che ricorda la
grande tragedia italiana e "la necessità di capire l'umanità che c'è dietro
quelli che si pensavano mostri. Perché la condanna - aggiunge Agnese Moro - non
restituisce giustizia. Il dialogo, invece, sì, seppur alla fine di lunghi
percorsi personali".
Si commuove visibilmente Bonisoli - e la Moro gli prende la mano - mentre
esprime la fortissima responsabilità che si sente addosso nel trovarsi a Genova,
città nella quale non ha commesso delitti, ma in cui l'organizzazione
terroristica di cui fu tra i capi, firmò tra gli altri l'omicidio Coco, quello
di Guido Rossa "e anche di Esposito e tanti altri" aggiungerà più tardi, a
margine, Tra i il pubblico, altri protagonisti di quegli anni, sulle due sponde
di quella che fu una vera "guerra" di dolore: Enrico Fenzi, a sua volta ex
brigatista, e Manlio Milani, presidente dell'associazione delle vittime di
piazza della Loggia a Brescia, insieme ai criminologi e alle persone che si
occupano di quel progetto di "giustizia riparativa" a cui Bonisoli partecipa.
Ma quegli anni, seppure tanto lontani come ricorda Dalla Chiesa, sono ancora
brucianti, le ferite sono troppe: anche se un percorso, delicato e faticoso, va
intrapreso per "liberare" un paese da un'ossessione delle troppe cose mai dette,
mai chiarite. E così, Agnese Moro, mentre ricorda la necessità di "rimettere
tutto al suo posto, affrontare le cose e superarle", non manca di sottolineare
ancora la rabbia, il dolore che esistono nei confronti "di quei partiti, il
governo, ma anche i giornali e i salotti degli intellettuali che in nome di una
presunta fermezza, rimasero a guardare un uomo , mio padre, che moriva;
dicendone cose terribili, tra di loro".
Poi Bonisoli racconta del distacco dalla lotta armata e del dialogo durante
gli anni in carcere, con crisi molto dure; e la consapevolezza però che, al di
là della scelta "sbagliatissima", come Bonisoli sottolinea, sui metodi della
lotta armata, restano validi i valori che hanno ispirato l'intenzione di
cambiare il mondo. "Ora resta la consapevolezza che di fronte ai familiari delle
vittime ci vogliono forme di dialogo per alleviare il loro dolore - aggiunge -
Noi ci sentivamo, anche se nel modo sbagliato, missionari che impegnavano
completamente loro stessi: avremmo dovuto farli davvero i missionari, come i
sacerdoti che sono andati nel Mato Grosso. Purtroppo pensavamo di risolvere,
affermare il bene attraverso la violenza. Questo ci ha portato a debiti infiniti
da pagare".
E Agnese: "Io vorrei dare al disponibilità di essere insieme a chi ha perso
qualcuno, ma anche a chi ha fatto un percorso per capire il dolore che ha
cerato: si può rigenerare qualcosa anche dalle cose più brutte. Con tanta
disponibilità e affetto". E Bonisoli conclude parlando della figlia, della sua
vita di oggi: "Ogni giorno si possono creare rivoluzioni: e questa è la nostra
rivoluzione".
di DONATELLA ALFONSO (La Repubblica - Genova, 11 luglio 2011)
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