|
Dedicato ai genitori
Morlacchi e il suo libro, testamento di famiglia
Ne "La fuga in avanti" il giovane Morlacchi racconta l'"umanità"
dei genitori. Il padre del giovane brigatista è stato tra i fondatori delle Br.
Manolo Morlacchi, figlio dell'ex brigatista Pierino Morlacchi Un apologo del
terrorismo? Un esaltato? Uno scrittore maledetto? O un figlio come tanti?
Interrogativi inquietanti, ma che possono trovare una chiave di lettura, è
proprio il caso di dirlo, sfogliando le pagine de «La fuga in avanti», scritto
da Manolo Morlacchi con un sottotitolo esemplificativo: «La rivoluzione è un
fiore che non muore». Così, il giovane terrorista in un'incursione non armata su
«Vuotoaperdere», blog di Manlio Castronuovo, aprì uno spaccato inedito sulla
premessa del suo lavoro, quasi un'ispirazione, un marchio da trasmettere per una
sorta di testamento di famiglia: «Non posso che guardare con enorme ammirazione
alle scelte compiute da mio padre, da mia madre e da centinaia di altri compagni
più di trent'anni fa. Al di là delle questioni politiche - sostenne - mi piace
sempre ricordare l'enorme esempio di umanità che i miei genitori sono stati
capaci di trasmettere a me e tanti altri. Un esempio che ho cercato di far
trasparire mel mio libro, utilizzando prima di tutto episodi legati alla
quotidianità, ai rapporti familiari, alla dignità umana».
Alla madre, Heidi Peusch, anche lei implicata nella lotta armata, Morlacchi
ha dedicato la chiusura del suo libro, raccontando di quando nel 2003, al suo
funerale, su un muro apparve la scritta «La rivoluzione è un fiore che non
muore. Ciao Heidi», e di come negli occhi dei compagni presenti avesse visto
allora «una scintilla più che mai viva, un sogno rivoluzionario ancora non
sfumato per il quale è necessario ancora lottare». Manolo Morlacchi, nato nel
1970, ha sempre risieduto a Milano, al Giambellino, vecchio quartiere a sud
ovest della Madonnina popolato da immigrati e proletari e reso celebre dalla
«Ballata del Cerutti» di Giorgio Gaber. Si è laureato in Storia alla Statale nel
1997 con una tesi dal titolo «Politica e ideologia nell'Italia degli anni '70.
Il caso delle Br».
Studente lavoratore, ha dovuto «ben presto abbandonare qualsiasi velleità di
insegnamento o di dottorato», si legge in una sua biografia. A fine 2008, ha
pubblicato un racconto sul «Il Manifesto» dal titolo «I topi di San Vittore»
che, tratto da fonti orali, racconta una giornata tipo nello storico carcere
milanese. Su «La fuga in avanti», una foto lo ritrae insieme al fratello Ernesto
ai funerali del padre Pierino, nel 1999: circondati dalla bandiere rosse
salutano a pugno chiuso la bara del padre che sfila su un furgone coperto dalla
stella a cinque punte. E quel funerale rappresenta probabilmente il passaggio di
testimone dell'apologia di terrorismo quando, nell'orazione funebre, si leggeva:
«Alcuni hanno barattato la loro dignità con le briciole che la borghesia lascia
cadere a terra dalla tavola sempre più imbandita dello sfruttamento, della
violenza e della guerra».
Il «baratto» «è ancora più drastico e radicale. Non si collega semplicemente
al tradimento o alla dissociazione di coloro che aderirono all'esperienza della
lotta armata. È all'intera classe operaia che si rivolge l'accusa», spiegava poi
in un'intervista. Orgoglioso della propria appartenenza, Morlacchi ha raccontato
come il fatto di essere il figlio di uno dei fondatori delle Br «sia sempre
stato un vantaggio. Ho constatato personalmente che la storia della mia famiglia
mi ha quasi sempre garantito un rispetto di fondo dalle persone, a prescindere
dalle loro convinzioni politiche. Essere rivoluzionari, oggi come ieri,
significa una sola e semplice cosa: combattere per il superamento del
capitalismo. È il sistema che si basa sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione a generare le ingiustizie che ogni giorno urlano da ogni angolo del
mondo. E oggi è giusto e necessario essere al fianco di coloro che ad ogni
latitudine resistono agli attacchi dell'imperialismo».
Il brigatista quarantenne non si mai sottratto all'analisi delle vecchie Br
sul tema delle «svolte» all'interno. «Vi furono - sostenne - ma risultarono il
prodotto di una discussione politica corale che includeva anche il punto di
vista dei militanti rinchiusi in prigione. Anzi, direi che i militanti
imprigionati furono sempre assai ascoltati da chi continuava a combattere fuori.
La tesi delle Br militariste mira a separare le "pecore bianche da quelle
nere", per ragioni che sono tutte politiche. Le pecore bianche sono le prime Br
che usavano la violenza come moderni Robin Hood. Le pecore nere sono le seconde
Br: quelle violente, assassine, quelle di Moro per intenderci. È un tipo di
lettura cui mi sottraggo e alla quale non ho mai dato alcun credito». Inseguendo
il proprio pensiero per Morlacchi, «analizzare liberamente e fino in fondo
quanto accaduto negli anni '70 e ancora di più nei decenni precedenti
significherebbe mettere in discussione l'intero impianto su cui si regge la
nostra repubblica. Ogni lettura diventa così inevitabilmente una lettura
interessata che ha ben poche affinità con la «verità storica». Vai alla homepage
Marino Collacciani (Il Tempo - 19/01/2010)
|