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Sofri, Casalegno e la violenza in Lc «Quando non sei più innocente»
04/11/2009 - Corriere della Sera - Adriano Sofri  
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Sofri, Casalegno e la violenza in Lc «Quando non sei più innocente»

Gentile direttore,

ho letto l’intervista ad Andrea Casalegno. Vorrei dire che cosa penso dei punti cruciali, che vengono presentati come se rivelassero qualcosa. A cominciare dal legame fra Leonardo Marino e me. La cui evidenza è stata fin dall’inizio (dal 1988, quando fui arrestato) il filo conduttore della vicenda: il figlio chiamato Adriano, i soldi che gli avevo dato... Mi chiesero come mai gli avessi dato dei soldi, se non per comprare il suo silenzio. Perché me li aveva chiesti, spiegai, perché gli ero affezionato, perché era povero e ne aveva bisogno per la sua famiglia: e documentai cifre e circostanze. In Lotta Continua, dice Andrea, tutti pensano che Marino dica la verità. Non so. Però so la verità. Non ebbi il colloquio che Marino mi attribuì, non gli diedi alcun mandato. Io lo so, e lo sanno per certo coloro che furono testimoni dei miei movimenti nella circostanza in cui Marino volle collocare il colloquio. Non diedi alcun mandato, e dunque non coinvolsi Lotta Continua — tutte le sue persone, compreso Andrea Casalegno — nella responsabilità di un omicidio.

Di tutte le altre responsabilità mi sono fatto carico, e non certo per difendermi in un tribunale. La mia condanna— che continuo a scontare — autorizza chiunque lo voglia a dichiararmi mandante provato dell’omicidio di Calabresi. Ma la condanna non cambia la verità, né la mia saldezza nel sostenerla. Dice Andrea — pensiero che dà il titolo alla pagina — che «il germe della violenza c’era già alle origini», dunque prima della strage di piazza Fontana; e critica la definizione del 12 dicembre del ’69 come la data della «perdita dell’innocenza». Io l’ho detto da tempo. In particolare, proprio in un’intervista al Corriere del 2 aprile 2004. «Così abbiamo perduto l’innocenza. Ma oggi mi interrogo sulla sensatezza di questa formula... Si tratta dell’idea: chi è innocente scagli la prima pietra. È l’espediente che Gesù usa per non fare lapidare l’adultera.

Questo stratagemma evoca un problema morale straordinario: è proprio vero che chi è innocente può scagliare la prima pietra? Noi oggi ci comportiamo così nei confronti del racconto di piazza Fontana. Innocenti come eravamo, toccava a noi per diritto, diritto che è divenuto poi la nostra dannazione, tirare la prima pietra. Poi quando l’hai scagliata non sei più innocente. E non a caso poi ne tiri un’altra e un’altra ancora. Fino a divenire un lanciatore di pietre. Quasi un lapidatore: persino a noi successe.

La campagna contro Calabresi diventò una specie di lapidazione... In realtà innocenti non lo eravamo. La verità è che l’innocenza come condizione originaria è molto difficile da trovare. Lo choc della strage per noi fu fortissimo, un colpo che ti fa tramortire: tuttavia eravamo militanti politici con una grande voglia di fare la rivoluzione da anni. Questo rende contraddittoria e parziale quella definizione di innocenza... la trasforma in una specie di autoassoluzione un po’ troppo indulgente. Mi chiedo: senza la strage di piazza Fontana, avrei tirato la mia prima pietra o no? Secondo me sì. Anzi forse l’avevamo già tirata». E alla domanda: «Vuole dire che la violenza era già dentro il movimento?», risposi: «Noi non abbiamo cominciato a credere non solo nella necessità ma addirittura nella virtù della violenza dopo il 12 dicembre. Noi ce ne riempivamo la bocca da molto tempo prima...».

Ricordato questo, trovo sconcertante l’opinione di Andrea che «la strategia della tensione ebbe un certo ruolo nel precipitare il Paese negli anni di piombo». La strategia della tensione e delle stragi segnò un mutamento sconvolgente nella temperie umana e civile dell’Italia, nel nostro stato d’animo e nel nostro orizzonte politico. Solo alcuni di noi — quasi per una deformazione psicologica — continuano a seguire quello che si dice, settimana dietro settimana, 35 anni dopo!, al processo bresciano su piazza della Loggia: autopsia delle colpe dello Stato nelle stragi, agghiacciante quanto sfinita. E comunque, per allora e per oggi, penso che qualunque delitto privato sia incomparabile col delitto commesso da chi ha il monopolio pubblico della forza.

Andrea Casalegno ha raccontato in un libro l’assassinio di suo padre e una storia di famiglia piena di dolore. Mi dispiace molto, e mi dispiace il sentimento che leggo nelle sue parole. Quando Carlo Casalegno fu assassinato, ne provai rabbia e pena. Anni fa scrissi ad Andrea per ricordare un episodio: «Una volta — nel 1976— ritenni che tuo padre, in un commento, avesse ingiustamente addebitato a Lotta Continua il favoreggiamento verso scelte armate clandestine. Io reagii prendendo il telefono — ero a Roma — e chiamando tuo padre, col quale ebbi una conversazione vivace e aspra, nella quale però fu reciproco il riconoscimento della sincerità e forza delle convinzioni rispettive. (Forse, nelle parole di apprezzamento che tuo padre mi rivolse, c’era soprattutto il riflesso della sua sollecitudine e rispetto per te)». Quanto a chi in quegli anni passò la linea, Andrea tiene a ripetere che si può diventare ex di qualunque cosa, ma un assassino rimane per sempre un assassino. Io non lo penso: penso che ciascuno possa cambiare, e che anche un assassino possa diventare una persona che ha commesso un assassinio. Che non solo il calendario cristiano, ma la nostra società dimostri largamente, per fortuna, che questo avviene.

Adriano Sofri (Corriere della Sera, 4 novembre 2009)

 

 

       

 

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