|
Tobagi, il terrorismo e il cuore di una figlia
Molti libri iniziano davvero nel titolo. Il titolo non è lì a sintetizzare, a
suggestionare, a indicare. Il titolo è già un capitolo, anzi è il primo capitolo
del libro. In questo caso, per il libro di Benedetta Tobagi, il titolo è davvero
fondamentale.
Non solo perché è il più bel titolo di un libro uscito negli ultimi anni, ma
perché è capace di suggerire senza tradire tutto quanto ci sarà dentro quelle
pagine che protegge come un sigillo. Come mi batte forte il tuo cuore: il verso
della poetessa Wislawa Szymborska. E il sottotitolo è Storia di mio padre. Il
padre di Benedetta è Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera
ucciso nel maggio del 1980 a Milano, dai terroristi della Brigata XXVIII marzo.
Sciascia scrisse di lui "lo hanno ammazzato perché aveva metodo". Benedetta
non ricorda il padre, era piccolissima quando l'hanno ammazzato. Aveva tre anni.
Ricorda il giorno della morte, ne ricorda le sensazioni. I bambini non hanno
mediazione. A scuola nel cortile raccontava a increduli compagni: "papà è morto:
gli hanno sparato bum bum!" Quando decide di occuparsi di suo padre, si ritrova
ad occuparsi pure del suo Paese e ancor più a mettere le mani nella storia
peggiore italiana, complicata, labirintica. Ma lei ha un obiettivo diverso.
Capire se stessa, il suo dolore, non semplicemente sondare un frammento
d'Italia. Benedetta diventa esperta d'archivi e addirittura porta nuovi elementi
ai magistrati che dopo più di vent'anni dalla morte del padre non avevano colto
passaggi importanti.
Tobagi non era un giornalista d'inchiesta. I terroristi non uccisero
giornalisti d'inchiesta, ma giornalisti come Carlo Casalegno e, appunto, Walter
Tobagi che analizzavano le questioni, davano nomi e interpretazioni. Non
rivelazioni di nuovi elementi. E questo li condannava a morte. "Scrivere chiaro
è difficile" diceva Walter Tobagi. Lo sa anche sua figlia. Difatti cerca di
lavorare sulla parola, sulla narrazione dei fatti, sul racconto di se stessa,
della sua famiglia. La cosa più difficile possibile è raccontare e insieme
rispettare, mostrare ma non sbirciare, urlare ma non gridare. Il suo libro non è
un saggio, non è un romanzo, non è un trattato scientifico, non è nemmeno un
omaggio. E' scritto come un romanzo ma con contenuto privo d'invenzione e con
disciplina dei dati.
Quello che Benedetta Tobagi fa è togliere al padre l'elmo da eroe. Proprio
nei modi raccontati da Omero. Ettore, prima della battaglia, si avvicina a
salutare il piccolo Astianatte che però scoppia a piangere perché non lo
riconosce. Ettore allora si toglie l'elmo e Astianatte gli salta al collo.
Benedetta Tobagi fa lo stesso: "Imbarcarmi in una duplice ricerca intorno alla
persona pubblica e privata di mio padre è stato il modo di sfilargli l'elmo
impostogli dalla retorica postuma".
Chiama spesso in questo libro suo padre semplicemente Walter e cerca di
sottrarlo a tutti i commenti, alle commemorazioni, persino alle carezze postume.
E ricorda invece tutto ciò che dal suo ambiente gli arrivò in vita come accuse,
la sua presunta sudditanza a Craxi, l'accusa di essere diventato direttore
dell'Associazione Lombarda Giornalisti brigando e orchestrando chissà quali
manovre. E' raccontato assai bene in questo libro l'ambiente dei giornalisti
subito pronti a stringersi intorno al martire, ma che un attimo prima e subito
dopo si dilanieranno in invidie, insulti, discredito gettato l'un contro
l'altro. La madre di Bendetta "vedeva il giornale come uno strumento di potere e
la redazione come un ricettacolo di rancori, gelosie, e lotte intestine sotto lo
smalto del prestigio". Tobagi era un riformista e un uomo capace di leggere il
suo tempo con analisi profonde. C'è una frase che mi ha colpito per la sua
attualità "a me pare che si corra il rischio di dire che è democratico il
giornale che dice quello che mi piace".
Benedetta è severissima nel rileggere gli articoli del padre. Quando per la
prima volta, grazie a Giovanni Minoli che per primo dedicò uno spazio televisivo
alla vicenda Tobagi in anni dove sembrava si volesse rimuoverla, ascolta la voce
di suo padre, dichiara addirittura di esserne rimasta delusa. Si aspettava
un'altra voce. L'onestà di Benedetta in questo libro non sta nel cercare la
distanza obiettiva che non esiste se non in matematica, e qui si parla di uomini
e non di algoritmi. Ma riesce a raccogliere tutte le possibili sfumature, i
dati, le problematiche. Questo libro è il contrario di una celebrazione. La
lotta sindacale di Tobagi per avere giornalisti più liberi ossia meno
condizionati da chi gli dava lo stipendio e meno anche punibili dai direttori,
era un modalità d'intervento che coltivava l'utopia di far coincidere la propria
ambizione con la possibilità di migliorare le cose per tutti.
All'interno del Corriere della Sera, Walter Tobagi ha combattuto contro le
infiltrazioni piduiste. Benedetta scova che in una valigetta di Gelli era stato
ritrovato il documento di rivendicazione della morte di suo padre. E Benedetta
fa senza problemi nomi e cognomi delle firme, degli azionisti, dei progetti di
controllo del Corsera a cui il padre continuamente si era opposto. Benedetta
nelle carte del padre ritrova un giovanissimo Ferruccio de Bortoli che Tobagi
considerava un suo allievo.
L'omicidio Moro lo fece molto riflettere sul suo destino, in una lettera alla
moglie scrive: "Se un giorno non dovessi più esserci ti prego di spiegargli di
ricordare. Mi sentirei ancora più in colpa se oggi non spendessi quei talenti
che mi sono stati affidati". Ricorda. E' ciò cui Tobagi tiene, "ricorda ciò che
non sono riuscito a spiegare ai miei figli". Ricorda. Perché è diverso sapere di
rischiare di morire se si ha la certezza che qualcuno proteggerà le persone che
più ami dalle migliaia di versioni che gli altri daranno sulla tua vita. Tobagi
venne ucciso con cinque colpi di pistola da un gruppo di circa sei terroristi,
Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e
Manfredi De Stefano, volevano accreditarsi nel mondo della lotta armata, un
omicidio di promozione nella massima serie dei banditi rossi. Figli di famiglie
della borghesia milanese, due membri del commando in particolare appartengono
all'ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone,
dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS),
e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico del quotidiano Morando
Morandini. A sparare sono Mario Marano e Marco Barbone. Barbone, quando Tobagi
si accascia per terra, gli dà il colpo di grazia.
Subito dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, Barbone inizia a
collaborare con gli inquirenti. Grazie alle sue rivelazioni l'intera Brigata 28
marzo finisce in carcere insieme a più di un centinaio di sospetti terroristi di
sinistra, con cui Barbone è venuto in contatto nel corso della sua breve
carriera da terrorista. Loro adesso hanno l'età matura che avrebbe avuto suo
padre, ma quando l'hanno ucciso avevano la stessa età di Benedetta. Nelle pagine
si vede il tormento di una donna che lavora su se stessa e si ripete che deve
capire, da storica, le ragioni che hanno spinto questi ragazzi a uccidere "per
dimostrare di essere vivi". Poi a volte cede. Non ce la fa, vorrebbe gridare: ma
vi rendete conto che cosa avete fatto. Vorrebbe andare a vederli uno per uno ora
divenuti cattolici di Comunione e Liberazione. O, come i capi di Prima Linea,
profeti vegani dell'impegno sociale. E dopo aver massacrato, oggi ripetono, con
le facce contrite, la solita omelia del "voi oggi non potete capire".
Invece il libro di Benedetta Tobagi dimostra che noi possiamo capire; che
anzi abbiamo capito benissimo cosa hanno fatto questi terroristi che volevano
mutare il mondo e l'hanno peggiorato, distratto l'attenzione da quello che
combinava la criminalità organizzata e la politica corrotta, ucciso la parte
migliore del paese. I giudici che vengono uccisi non sono quelli reazionari,
pesanti con i deboli e deboli con i potenti. Sono i giudici riformisti,
democratici, capaci di considerare la giustizia che i terroristi definiscono
borghese come uno strumento di miglioramento sociale e di vedere la legge come
difesa, sempre di chi non ha strumenti altri di difesa che il diritto.
Benedetta Tobagi è bravissima nel raccontare le perversioni dei terroristi di
quegli anni: la concorrenza tra chi uccideva di più e i nomi più "organici al
sistema". E di come lo Stato all'epoca sottovalutava tutto, quando il nome di
Walter Tobagi viene trovato in una schedatura di un terrorista. Consigliano a
Tobagi di uscire di casa dopo le nove perché "quelli uccidono dalle sette alle
otto". Incredibile ma questo fu la ricetta per salvarsi la vita. Le pagine più
dure di Benedetta sono su Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca
famiglia milanese. Giocava a fare la terrorista.
Benedetta non sopporta le commemorazioni vuote del martire che serve ad
allontanare la sua figura umana: come a dire che è impossibile vivere come lui.
Invece bisogna avvicinare, mostrare le fragilità, le contraddizioni. E così la
targa sul posto dove è morto Tobagi, non è retorica. Dice poeticamente usando le
parole bibliche: "Più tenace della paura, più profonda del tuo dolore nel
silenzio dell'essere, la vita canta".
Questo libro non poteva essere scritto che da una persona nata in una
famiglia di persone che si amavano. E' una fesseria credere che le famiglie
felici si somiglino tutte e quelle infelici sono infelici ognuna a modo suo.
Anche la felicità ha una declinazione tutta sua. E questa famiglia di cui scrive
Benedetta, una famiglia schiacciata per sempre sul nascere da un lutto assurdo,
fatto da terroristi dell'ultima ora, ma tenuta insieme dal ricordo di un tempo
felice. La felicità del fratello Luca, il rigore della madre. Ebbene questa
famiglia riesce a non sfaldarsi. Nel mio paese si dice che la malta buona non fa
cadere nessuna casa. Credo sia proprio così. Nei diari di Walter Tobagi c'è un
passaggio che dedica alla moglie. "Stasera mi sento solo le poltrone vuote ma
sono felice. Penso a te e mi sento felice". Ma l'amore che prova per lui dev'essere
immobile e non dinamico come è la vita. E questo libro è la declinazione del suo
amore, vivo, fluido e non museale. Alla fine è il desiderio di una figlia che
parla al padre, certa che da qualche parte quel padre la sta ascoltando. C'è una
scena che non ti dimentichi più dopo averla letta. Benedetta mentre spulcia
negli archivi, cassetti, nell'ordine postumo che la madre aveva dato alla vita
di suo marito, trova una cassetta. Una registrazione di pochi minuti fatta il
giorno del compleanno di Walter. E' una registrazione gioco, Walter accende il
registratore, il piccolo Luca parla e non smette e la piccola Benedetta è timida
e tace. Ma poi il padre riesce miracolosamente a convincerla. Allora si fa
coraggio si avvicina e dice con la vocina "tanti auguri papà". Ed è il simbolo
di un padre che aiuta a parlare. Questo libro da spazio a chi ha dato voce al
meglio di questo paese, raccontandolo e difendendolo, un paese che sembra aver
perso quella voce. Ma queste parole scritte da Benedetta Tobagi permettono di
accorgerci che in molti di noi batte ancora forte il loro cuore.
Roberto Saviano (Repubblica 2 novembre 2009)
|