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Violenza, errori e memoria. Cosa sono stati gli anni ‘70
"Le ragioni di un decennio" di Giovanni De Luna, storico e ex
militante di Lotta Continua
"Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche", è
l’invito dell’autore esteso a tutti i protagonisti di quella stagione
Anni Settanta, il passato che non passa. Un decennio irrisolto, schiacciato
inesorabilmente nella sua declinazione plumbea, ancora oggi invocato a
sproposito come un fantasma molesto. A questa iconografia granitica, alimentata
prima dal silenzio più tardi dall’«epica brigatista» e ancora da «un’ipertrofia
della memoria» che travolge la conoscenza storica, tenta di porre rimedio il
volume di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza,
violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, pagg. 254, euro 17, con le fotografie
di Dario Lanzardo). Già il titolo, a ricalco di un celebre libro di Paolo
Spriano, rivela la natura insolita dell’impianto, né solo saggio storico né
autobiografia. Oltre che studioso contemporaneista, De Luna è anche un ex
militante di Lotta Continua, che oggi decide di misurarsi senza indulgenza con
quell’evo così complicato, con la deriva violenta ma anche con le modalità più
innovative dell’impegno politico. Allo sguardo del testimone s’affianca così la
lente dello storico, fino a produrre un’analisi disincantata del decennio. Il
risultato è una fotografia lucida di un’occasione perduta, ferma nel ritrarre le
potenziali energie che affluivano dal movimento ma anche i gravi errori di Lotta
Continua e ferma nel denunciare le zone grigie di uno Stato che ancora evita di
fare i conti con le sue ambiguità.
Perché il decennio dei Settanta è una storia che non passa? Il libro prende
spunto dai morti dimenticati, espulsi dalla memoria pubblica. Militanti di
sinistra che non erano del Pci o del Psi, non terroristi né poliziotti né
vittime del terrorismo. I nomi sono quelli di Tonino Miccichè, Francesco Lo
Russo, l’anarchico Franco Serantini e molti altri ancora, tutti «dediti con
passione e generosità alla causa degli ultimi»: tutte vittime innocenti di una
mano che è rimasta impunita. Così come non è mai stato trovato un colpevole in
chiave giudiziaria per nessuna delle stragi riconducibili alla strategia della
tensione: undici carneficine, centocinquanta morti, seicentocinquantadue feriti
rimasti senza giustizia. Quel che ne ricava lo studioso è che «lo Stato ha
rinunziato a fare luce ogni volta che si sospettava un coinvolgimento dei suoi
apparati». Un grado di coinvolgimento su cui si potrà pronunciare soltanto lo
storico del futuro, essendo stato finora impedito l’accesso alle carte e agli
archivi. Se il passato dunque non passa - è una delle tesi del libro - è anche
perché l’opinione pubblica non ha mai potuto penetrare «il cuore nero della
storia repubblicana» simboleggiato dai morti rimasti senza giustizia.
Fu proprio il «dilatarsi patologico» della sfera dell’invisibile a creare un
disagio diffuso verso le istituzioni democratiche. Una sfiducia estesa in larghi
strati della collettività, tra studenti, giornalisti e intellettuali. Più che
alla teoria del doppio Stato e della doppia lealtà, lo studioso preferisce
richiamarsi a Norberto Bobbio, il quale teorizzava l’esistenza in tutte le
democrazie di una dose fisiologica di arcana imperi, ma anche la necessità di
contenere il più possibile la «simulazione» e «l’inganno» insite nella
segretezza. Gli esordi di quel decennio furono invece segnati da una «pesante
opacità», che finì per rendere «indecifrabili» e «inquietanti» le istituzioni
dello Stato democratico. Era fondato questo senso diffuso di ostilità? Non
peccava di ingenuità e di enfasi allarmistica? Lo storico - forte del senno di
poi - non lo esclude. Però non può neppure trascurare i segnali sinistri che
allora scuotevano le coscienze.
L’ansia di verità - in formazioni politiche come Lotta Continua - si coniugò
con quella che lo studioso definisce una «rigidezza dottrinale ossessiva», con
«giudizi politici superficiali» («il fanfascismo» o la «fascistizzazione dello
Stato»), con «impazienze esistenziali», con la sostanziale incapacità di
comprendere cosa stava avvenendo nelle pieghe più profonde della società
italiana («la forza pervasiva dei mercati», «l’universalizzazione delle tecniche
informatiche», «la marcata omologazione dei consumi e degli stili di vita», «il
nuovo ruolo delle grandi banche e delle società multinazionali»). «Nessuno di
questi scenari fu nemmeno intuito», scrive De Luna. «Rinchiusi nel Novecento,
Lotta Continua e gli altri movimenti nati dal Sessantotto vi lessero solo ed
esclusivamente una sorta di resa della democrazia e si consegnarono interamente
al passato, affacciandosi con una sorta di impotente subalternità all’esplosione
di violenza che nella seconda metà degli anni Settanta insanguinò la lotta
politica».
Tra «concorrenza» alle Brigate Rosse e «netta alternativa» oscillò quella
formazione, evocata fin dal primo congresso di Rimini (aprile 1972) nelle sue
tonalità cupe ed aggressive. Riaffiorano i titoli del quotidiano, che
festeggiano l’assassinio di Oberdan Sallustro, il dirigente della Fiat Concord
ammazzato dai guerriglieri argentini. È questo il contesto in cui matura «la
martellante campagna di stampa contro Luigi Calabresi, che fa da sfondo al
delitto del commissario». Da «un compagno non può averlo fatto» si passa
rapidamente «a un compagno può averlo fatto e, se lo ha fatto, ha fatto bene».
Poi il pendolo prese ad oscillare in direzione opposta, ma «la virata fu troppo
brusca, troppo poco elaborata, troppo verticistica perché Lotta Continua fosse
in grado di interpretare con efficacia il suo nuovo ruolo di avversario
dichiarato del terrorismo nascente». Il resto è storia nota.
Il passato può passare - è la conclusione di De Luna - soltanto se ciascuno
oggi è disposto ad assumersene la responsabilità, sul modello della commissione
sudafricana su Verità e Riconciliazione. «Lo Stato riconosca il proprio
coinvolgimento nelle stragi terroristiche», è l’invito dello storico, ma
l’esortazione andrebbe estesa a tutti i protagonisti di quella stagione.
«Imparare a perdonare», scrive Hannah Arendt, «vuol dire fare in modo che la
vita vada avanti». Ma per perdonare occorre che vi sia chi si assuma la
responsabilità di quelle derive. E perché il passato possa passare è anche
necessario che sulla troppa memoria prevalga la storia, la reale conoscenza
d’una stagione di sconfitte, rispetto alla quale Le ragioni di un decennio può
essere considerato un prezioso contributo.
Simonetta Fiori (la Repubblica, venerdì 23 ottobre 2009)
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