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E il cattivo maestro Toni Negri incita allo scontro di
piazza
Chissà perché amici e nemici, politologi e compagni, discepoli e avversari,
si rivolgono a lui come un ex cattivo maestro. È quell’«ex» che ci sfugge.
Rivoluzionario in servizio permanente effettivo, senza più passamontagna ma
neppure pentimenti, il Professore Antonio Negri detto Toni non ha mai dismesso
la sua aria e la sua aurea di maestro, e sul giudizio di «cattivo» si leggano la
vita e le opere. La bibliografia, in materia, è vastissima.
Per le cattedre il leader maximo e marxista ha sempre avuto un debole,
trovando ovunque - peraltro - qualcuno pronto ad offrirgliene una:
dall’Università della «sua» Padova, dove ebbe la prima nel 1967, dalla quale,
insegnando «Dottrina dello Stato» teorizzava curiosamente la distruzione dello
stesso, fino alla Sorbona, nelle cui democratiche aule si recava in bicicletta
dal suo loft di Montparnasse durante gli anni della latitanza francese. Un
illuminato periodo che il maestro, pasteggiando a Côtes du Rhône, spiegava agli
amici intellos trattarsi di esilio. Fastidiosi sofismi terminologici.
Semel abbas, semper abbas. Una volta maestro, maestro per sempre. Il
fondatore e teorico di Potere operaio, l’agitatore e «mente pensante»
dell’Autonomia, trenta-quarant’anni dopo la falsa guerra civile che ha squassato
un decennio e mezzo del secondo Novecento italiano, torna a impartirci la sua
lezione. Ancora una volta. Sì, ma da dove? E perché? Dalle pagine della rivista
di Massimo D’Alema. E il perché, a onor di logica, non si capisce. Scrisse, in
tempi sospetti, che «L’azione popolare si concentra e si esalta dentro l’asse
fondamentale di azione che è la lotta armata». Qualcuno gli credette, e agì di
conseguenza. Lui beveva champagne, gli altri tiravano le molotov.
Il Professore, raro esempio di coerenza e pervicacia nella costante
riaffermazione della validità della linea di attacco frontale alle istituzioni,
debutta come firma di ItalianiEuropei, house organ filosofico della Fondazione
di Massimo D’Alema e Giuliano Amato, il volano politico-culturale del riformismo
italiano. Titolo dell’intervento del professor Antonio Negri: «Il futuro delle
socialdemocrazie europee». Nel quale - incidentalmente - sostiene che «sarà
utile programmare uno scontro sul terreno sociale», specificando, tra parentesi
«dal punto di vista politico». Grazie a Dio.
Grazie anche a Toni Negri - tanto caratterialmente timido quanto
ideologicamente intransigente, fino alle estreme conseguenze della violenza -
l’Italia del Sessantotto e degli anni Settanta è stata, purtroppo, quella che è
stata. Intelligenza spinoziana, testa calda e linguaggio militarizzato, il
«Grande Vecchio» del terrorismo rosso ha incarnato l’escalation aberrante della
rivoluzione proletaria, dal punto di vista teorico e da quello pratico:
volantinaggio, picchettaggio (nelle fabbriche di Mestre, insieme a un giovane
veneziano, Massimo Cacciari), l’esaltazione del sabotaggio e del rifiuto del
lavoro, del pestaggio «educativo», della chiave inglese, dell’«obiettivo
strategico», dell’insurrezione, della «campagna di reclutamento», della
«strategia di riappropriazione». E più di recente, in tempi di ebollizione
globale, di rivolta contro il potere capitalistico degli imperi multinazionali e
di appoggio agli eco-teppisti in versione black bloc. Dalle tute operaie alle
tute nere.
Come scrisse, e mai si è pentito di aver scritto: «Nulla più di questa
attività di franco tiratore, di sabotatore, di deviante, di criminale, che mi
trovo a vivere, rivela l’enorme, storica positività della autovalorizzazione
operaia».
Il risultato giudiziario di quell’incandescente strategia extraparlamentare,
al netto dell’accusa di essere l’ideologo delle Brigate Rosse e mandate morale
dell’omicidio Moro, fu un capo d’accusa chilometrico: «associazione sovversiva»,
«insurrezione armata contro i poteri dello Stato», concorso morale nell’omicidio
di un maresciallo dei Carabinieri... Fu condannato a trent’anni di carcere.
Sofisticamente abbreviati, nel 1983, con l’elezione a deputato nelle fila dei
Radicali e una fuga in Francia protetto dalla dottrina Mitterrand. Dopo 14 anni
di una sua personalissima dolce vita parigina, rientrò in Italia nel luglio del
’97, passando da Rebibbia giusto il tempo per essere graziato dalle legge
Gozzini (nel ’98 lavora già in una cooperativa e nel ’99 ottiene la semilibertà)
per poi traslocare definitivamente da Montparnasse a Trastevere. Dal 2003, oltre
a libero pensatore - maître à penser no global, saggista impegnato, militante
anti-imperiale e bestsellerista ermetico - è anche libero cittadino, in perenne
permesso premio tra Venezia e Parigi.
Rossana Rossanda, una che lo conosce bene, pur battendosi per la
scarcerazione, riconobbe in lui un «versante luciferino».
Antonio Negri detto Toni oggi appare un mite professore in pensione di 76
anni. È stato il protagonista più cinico e spietato di quella tragedia tutta
italiana che ancora oggi pesa come il piombo. Ha dismesso il passamontagna nero
d’ordinanza e indossato il sottogiacca grigio-prete da catechista. Continuando a
predicare la sovversione. Ha perso la lucidità - a giudicare dagli ultimi
scritti filosoficamente scivolosi come Imperi e Moltitudine - ma non
l’arroganza. Nell’ottobre del 2001, un mese dopo l’attacco alla Torri Gemelle,
confessò di essere dispiaciuto del fatto che la Casa Bianca fosse stata mancata
dal quarto aereo. E oggi, su ItalianiEuropei, salutato dai soliti squittii
progressisti, tesse l’apologia dei moti contro il governo Tambroni, quelli
dell’estate 1960: una rivolta, dice, che salvò la socialdemocrazia.
Per il professor Toni Negri, con quel raro senso dell’anacronismo che lo
contraddistingue, la rivoluzione torna a essere attuale. Esattamente la cosa di
cui in questo momento abbiamo, in assoluto, meno bisogno.
Luigi Mascheroni (Il Giornale giovedi 15 ottobre 2009)
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