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''Io boss, cercai di salvare Moro''
Il pentito della 'ndrangheta Francesco Fonti rivela come, dietro richiesta
di parte della Dc, cercò la prigione di Aldo Moro durante il suo rapimento: dai
contatti con il Sismi a quelli con la banda della Magliana e Cosa Nostra. Fino
all'incontro con il segretario Dc Benigno Zaccagnini. Tutto lavoro inutile...
Si chiama Francesco Fonti, e il suo nome in queste settimane rimbalza tra
giornali e televisioni. Grazie al dossier che ha consegnato alla Direzione
nazionale antimafia, pubblicato da "L'espresso" nel 2005, i magistrati della
Procura di Paola e la regione Calabria hanno individuato il 12 settembre scorso,
al largo della costa cosentina, il relitto di un mercantile carico di bidoni: il
primo passo verso una verità che riguarda il traffico internazionale di scorie
tossiche e radioattive. Un intreccio tra politica, servizi segreti e malavita
organizzata."Soltanto un aspetto, per quanto grave, della mia attività", lo
definisce Fonti (condannato a 50 anni di carcere, prima di iniziare la
collaborazione con i giudici). E sempre Fonti, in queste ore delicate, decide di
rivelare al nostro giornale un altro capitolo della sua vita criminale: il ruolo
che avrebbe avuto nel tentativo di salvare la vita al presidente della
Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e
trovato morto nel centro di Roma il 9 maggio seguente. Un compito, dice,
affidatogli dal boss Sebastiano Romeo, dietro richiesta di una parte della Dc.
Ecco il drammatico racconto, in prima persona, di quelle tre settimane.
"Il mattino del 20 marzo 1978 si presenta nel mio appartamento a Bovalino,
sulla costa jonica in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Romeo, fratello del
boss Sebastiano che in quel momento è al vertice della famiglia di San Luca: "Sebastiano
ti vuole incontrare immediatamente", dice Giuseppe. E sono parole che non
prevedono repliche. Sebastiano non è soltanto il mio capo, ma anche uno degli
uomini più potenti della 'ndrangheta. Dunque non discuto e obbedisco,
ritrovandomi poco dopo seduto al tavolo ovale del suo salone. Sono preoccupato,
non so cosa aspettarmi, ma lui non perde tempo: "Ciccio, hai visto questa brutta
storia di Aldo Moro?", dice. "Ecco, dobbiamo intervenire. Devi salire di corsa a
Roma. Devi individuare, tramite i nostri paesani e i contatti che hai con questi
cazzi di servizi segreti, dove si nascondono i brigatisti che hanno rapito il
presidente".
Non mi lascia aprire bocca, Sebastiano. È innervosito dall'allarme nazionale
procurato dal caso Moro, un clamore che sta disturbando gli affari della nostra
organizzazione. "Ho ricevuto pressioni a due livelli", spiega: "Mi hanno
chiamato Riccardo Misasi e Vito Napoli (figure di spicco della Democrazia
cristiana calabrese, ndr), ma anche certi personaggi da Roma...". Non precisa
chi sono, queste persone. Ribadisce, invece, che la missione è di importanza
straordinaria, e non avrebbe accettato un mio fallimento.
Con questa premessa parto per la Capitale il giorno dopo. Salgo sulla mia
Renault 5 Alpine grigia metallizzata e scarico i bagagli all'hotel Palace di via
Nazionale, dove ho già soggiornato e dove consegno documenti falsi intestati a
un inesistente Michele Sità. Poi mi metto in contatto con un agente del Sismi
che si fa chiamare Pino: un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta,
con capelli corti pettinati all'indietro. L'ho conosciuto anni prima tramite
Guido Giannettini, il quale ha cercato di blandirmi per ottenere informazioni
sulla gerarchia interna della 'ndrangheta. Visto il solido rapporto tra me e
Pino, gli chiedo cosa sappiano i servizi del caso Moro, e se abbiano scoperto
dove si trovano i carcerieri delle Br. Lui risponde vago, dicendo che è una
storiaccia, e che neppure lui è riuscito a capire come stiano le cose. In
compenso, mi invita a parlare con il segretario della Democrazia cristiana
Benigno Zaccagnini, il quale sta lavorando sotto traccia per aiutare Moro.
Un'ipotesi diventata, poche ore dopo, un vero appuntamento.
Al termine di una giornata convulsa (durante un ultimo controllo alla Fiat
130 su cui viaggiava Moro, è stata trovata una terza borsa non elencata nel
verbale della prima perquisizione) rivedo infatti l'agente Pino, che nel
frattempo ha parlato con Zaccagnini. E mi dice di presentarmi il giorno dopo,
alle 10 della mattina, al Café De Paris di via Veneto. Specificando: "In mano
devi tenere la "Gazzetta del sud"", di cui mi consegna una copia. "In questo
modo, il segretario ti riconoscerà facilmente".
Il mattino del 22 marzo, mentre al Viminale si riunisce il Comitato tecnico
operativo gestito dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga, arrivo puntuale
all'appuntamento. Mi siedo a un tavolino nel dehors del Cafè de Paris, e aspetto
circa dieci minuti. Dopodiché arriva il segretario Zaccagnini: dà un'occhiata
attorno, mi individua e si accomoda di fronte a me. Forse, penso, ha qualche
indicazione chiave da riferirmi. Ma non è così: "È un brutto momento per la
coscienza di tutto il mondo politico", inizia senza neppure avermi detto
buongiorno. Si vede che è imbarazzato, e irritato, per essere costretto a
incontrare uno come me. "Mi creda", prosegue, "non avrei mai immaginato un
giorno di sedermi davanti a lei in qualità di petulante. Non sono mai sceso a
compromessi, ma se sono venuto a incontrarla, significa che il sistema sta
cambiando. Faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo,
ma piuttosto una svolta decisiva. Ci dia una mano e la Dc, di cui mi faccio
garante, saprà sdebitarsi". Poi sorseggia un sorso d'acqua, si alza per
andarsene e aggiunge: "Noi non ci siamo mai incontrati... Se ci saranno notizie
che vorrà darmi di persona, le dirà all'agente Pino".
La mia risposta, visto l'atteggiamento scostante del segretario, è gelida. Mi
limito a comunicargli che mi sono attivato per recuperare le informazioni utili.
E aggiungo: "Sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose, e le saranno
comunicate da me in prima persona". Parole che pronuncio con convinzione. Non
posso sapere che questa sarà la prima e unica volta che incontrerò Benigno
Zaccagnini, e tantomeno che nelle settimane seguenti succederanno fatti anche
per me sorprendenti.
A partire dall'incontro con un malavitoso capitolino, noto con il soprannome
di "Cinese" per i baffetti alla mongola. Non so quale sia il suo vero nome, ma è
certamente inserito nella celebre banda della Magliana. Me lo spiega il
referente romano di Cosa nostra, Pippo Calò, il quale garantisce che può essermi
utile: "Quelli sanno tutto?", dice. E aggiunge che, in quelle stesse ore, anche
Cosa Nostra sta lavorando per i politici romani all'individuazione dei
carcerieri di Aldo Moro. "So bene che le promesse dei politici non vengono
mantenute", mi dice, "ma dobbiamo aiutarli per cercare di ottenere
l'annullamento degli ergastoli inflitti ai nostri uomini". Da parte mia, ho
forti perplessità a trattare con la malavita romana, perché in Calabria si dice
che con i romani si può mangiare e bere, ma non fare affari. Parlano troppo. Si
vantano e cacciano tutti nei guai. Così, quando incontro il Cinese tramite Bruna
P., una donna con la quale ho una relazione, e che ha un negozio di biancheria
intima dove ricicla soldi della Magliana, sono molto prudente. Ci vediamo il25
marzo, giorno in cui le Br diffondono il loro secondo comunicato, in una
birreria di via Merulana, a poche decine di metri da piazza San Giovanni. E il
mio interlocutore non tarda a fare lo sbruffone: "Lo sanno tutti dove sono
nascosti Mario Moretti e tutti gli altri!", ride. Impugna un boccale di birra da
un litro, e nonostante la delicatezza del tema parla a voce alta nel locale
affollatissimo: "I rapitori di Moro si trovano in un appartamento in via Gradoli,
dalle parti della Cassia", dice. Non mi indica il numero esatto, ma in ogni caso
non ha dubbi: "Se lo volessero trovare, Moro, non ci vorrebbe niente. Però chi
lo vo' trovà, a quello?", conclude con un'altra risata.
Inutile dire che rimango perplesso: da una parte mi fa divertire, come si
comporta il Cinese, dall'altra temo di buttare il mio tempo. Com'è possibile, mi
domando, che tutta la malavita di Roma sia al corrente di dove si trova il covo
delle Brigate rosse? Ci vogliono ben altre conferme, penso, prima di contattare
Zaccagnini; e anche per questo decido di parlare con Angelo Laurendi, un 'ndranghetista
di Sant'Eufemia D'Aspromonte che conosco da tempo e che spero possa darmi
notizie interessanti. Una speranza, purtroppo, infondata, ma questo non
significa che la nostra chiacchierata sia inutile. Angelo, infatti, mi
accompagna sulla sua Lancia Appia nel comune di Ciampino, e per la precisione in
un negozio di mobili il cui proprietario è Morabito di Reggio Calabria, un 'ndranghetista
di cui non conosco il nome di battesimo. È comunque in quel momento un uomo
tarchiato, sulla quarantina abbondante, con la barba scura e una piccola
cicatrice sullo zigomo. Mi accoglie cordiale e rispettoso in ufficio, e quando
domando se gli risulta di un appartamento delle Brigate rosse in via Gradoli,
annuisce: "Voi potete stare sicuro che qualcosa c'è, in via Gradoli", dice. "Mi
hanno detto che i brigatisti gestiscono un appartamento, lì, e probabilmente
c'entra con Moro".
A questo punto, capisco che l'indicazione datami in prima battuta dalla banda
della Magliana non è così improbabile. Perciò ricontatto l'agente Pino, gli
faccio credere di non sapere ancora nulla, e insisto per ottenere nuovamente
aiuto. Una richiesta che non può rifiutare, visto il nostro legame, tant'è che
dopo avere premesso che sono in atto vari depistaggi, mi suggerisce di parlare
con l'appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, addetto all'ambasciata di
Beirut sotto il comando del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, il quale
gli ha raccomandato di salvare a tutti i costi il presidente Moro (non a caso,
in una sua lettera durante la prigionia, Moro invoca proprio l'intervento di
Giovannone, ndr). "Balestra ha ottime fonti", dice l'agente Pino. E non sta
esagerando. Ne ho la riprova quando ci vediamo tutti e tre (io, Pino e Balestra)
negli ultimissimi giorni di marzo, davanti a un bar nel quartiere romano dell'Alberone,
dalle parti di via Tuscolana. È pomeriggio, e parliamo a bordo della Lancia di
Pino. Il discorso dell'appuntato Balestra è chiarissimo: "Io sto dando l'anima",
dice, "per arrivare alla liberazione del presidente, ma continuo a sbattere
contro un muro. Ogni informazione che ricevo è vera e falsa allo stesso tempo.
Non distinguo più tra chi mi vuole aiutare e chi cerca di farmi girare a vuoto.
In più c'è la guerra politica, con i socialisti che vogliono vivo Moro, e gran
parte della Dc che finge di volerlo liberare". Poi sussurra: "In questo covo di
cui si vocifera, in via Gradoli 96, non abita nessuno. O almeno, così dice chi
ha verificato (un primo sopralluogo in via Gradoli 96 è avvenuto il 18 marzo:
sono stati perquisiti tutti gli appartamenti tranne quello affittato dalle Br,dove
l'inquilino non ha risposto al campanello e gli agenti se ne sono andati,ndr)".
In ogni caso, insiste Balestra, ha la certezza che in quella casa bazzichino i
brigatisti, anche se non sono stati fermati.
È qui che capisco quanto la mia trasferta romana rischi di essere inutile. Il
dramma di Moro campeggia sulle prime pagine dei giornali, i partiti si mostrano
formalmente costernati, ma dietro le quinte si consuma qualcosa di
inconfessabile. Chi si batte veramente, con tutte le forze, per individuare i
covi delle Br, non viene appoggiato. Anche se è una persona seria come il
democristiano siciliano di corrente fanfaniana Benito Cazora (scomparso nel
1999, ndr); un parlamentare che cerca di incontrare chiunque possa svelargli
dove si nascondano i brigatisti e dove sia segregato Moro. Tra gli altri, il
deputato parla con un certo Salvatore Varone, 'ndranghetista che noi chiamavamo
Turi, ma che si presenta a Cazora come Rocco, incontrandolo in varie occasioni
delle quali non conosco i particolari.
Posso invece riferire, per quel che mi riguarda, che contatto l'onorevole
Cazora tramite Morabito di Ciampino, il quale dice che questo parlamentare "sta
impazzendo per avere informazioni sul presidente Moro". Fisso quindi un incontro
con lui a Roma, nel ristorante Rupe Calpurnia, dove noi 'ndranghetisti abbiamo
festeggiato il compleanno dell'affiliato Rocco Sergi. Il nostro dialogo è breve
e teso, e si svolge in presenza degli 'ndranghetisti Morabito e Laurendi. Cazora
è angosciato, in effetti. Mi spiega che ha già parlato con un altro calabrese,
Rocco, e che è perplesso perché ha fatto lo spaccone: "Sostiene", mi dice Cazora,
"che può recuperare informazioni visto che i calabresi a Roma sono 400 mila, e
perciò possono controllare il territorio'. Io, dentro di me, penso che sono
strane frasi, per uno come Varone che nella 'ndrangheta conta come il due di
picche. In ogni caso, non faccio commenti perché non so chi frequenti Varone. Mi
limito a informare il deputato che mi sto muovendo, dietro un mandato politico,
per trovare il covo dei brigatisti, anche se non ho notizie certe. Al che lui
risponde: "Mi auguro sinceramente che abbiate più fortuna di me, grazie alle
vostre amicizie". Intanto i giorni passano, e la situazione si fa sempre più
drammatica. Il 29 marzo le Brigate rosse recapitano il terzo comunicato, con
allegata una lettera di Aldo Moro per il ministro dell'Interno Cossiga. Il 4
aprile tocca a un quarto comunicato, trovato con l'angosciante missiva in cui
Moro si rivolge a Zaccagnini (sulla trattativa per la liberazione, il presidente
scrive: "Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è
non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo
civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo
faccia la Dc che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi
nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e, lo dico
senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle
persone",
ndr). È evidente, dopo simili parole, che il dramma del sequestro rischia di
incanalarsi verso la peggiore conclusione, e io stesso temo di fallire la
missione. Ma mentre il clima si invelenisce, e le speranze di salvare Moro
diminuiscono, mi ricontatta l'agente Pino per farmi sapere che Giuseppe
Sansovito, numero uno (piduista, ndr) del Sismi, ha espresso il desiderio di
parlarmi. E così accade. Di lì a poco, Pino mi porta dal capo a Forte Braschi, e
dopo un dialogo interlocutorio Santovito mi chiede se ho notizie precise
riguardo a un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che, in effetti, ho
sentito questo indirizzo da amici, e lui commenta: "Tutto vero, Fonti: è giunto
il momento di liberare il presidente Moro". In ogni caso, aggiunge congedandomi,
"teniamoci in contatto tramite Pino".
La mattina dopo, quella di domenica 9 aprile (o di lunedì 10, non vorrei
sbagliarmi), lascio la Capitale e mi precipito a San Luca da Sebastiano Romeo.
Sono soddisfatto perché non soltanto so dove probabilmente sono nascosti i
brigatisti, ma c'è anche il preannuncio datomi dal colonnello Santovito della
futura liberazione del presidente Moro. Quando però incontro Sebastiano, lui
ascolta con attenzione il mio resoconto per una mezz'ora, dopodiché mi stronca:
"Sei stato bravo", riconosce. "Peccato che da Roma i politici abbiano cambiato
idea: dicono che, a questo punto, dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri". Una
frase assurda, imprevedibile, che lì per lì incasso in silenzio, ma che di fatto
vanifica il mio lavoro nella Capitale. Sono stanchissimo, amareggiato. Ho
indagato come si deve, a Roma, e adesso dovrei fottermene come se ne fotte
l'intera classe politica. Ci provo con tutto il cuore, ma non ci riesco: sono un
'ndranghestista di primo livello con tanto di sgarro (indispensabile per
accedere al massimo livello dell'organizzazione, ndr), ma sono anche una persona
che sa dire di no, a volte: e questa è una di quelle volte. Dopo l'incontro con
Romeo, dunque, torno a Bovalino e telefono alla Questura di Roma, presentandomi
al centralinista come Rocco. "Andate a Roma, in via Gradoli al numero 96",
scandisco, "e troverete i carcerieri di Aldo Moro". "Da dove sta chiamando?",
domanda il centralinista allarmato. "Chi parla? Chi è lei?", insiste. Ovviamente
non rispondo; abbasso la cornetta e provo a non pensarci più.
Una promessa impossibile da mantenere. Poco dopo, il 18 aprile 1978, il covo
di via Gradoli 96 viene scoperto per una strana perdita d'acqua. Dei brigatisti,
come logico viste le premesse, non c'è traccia. E a questo punto so bene il
perché: non c'è stata la volontà di agire. C'è invece, molti anni dopo, nel
1990, il mio incontro nel carcere di Opera (provincia di Milano, ndr) con il
capo delle Br Mario Moretti, colui che ha ammesso di avere ucciso il presidente
Moro, assieme al quale frequento casualmente un corso di informatica. I nostri
rapporti si fanno presto cordiali, piacevoli; lui sa esattamente chi sono e mi
rispetta. Io pure. Finché un giorno, mentre armeggiamo al computer, una guardia
gli consegna una busta e annuncia: "Moretti, c'è la solita lettera". Lui la apre
senza nascondersi, estrae un assegno circolare, lo firma sul retro per girarlo
all'ufficio conti correnti che permette l'incasso, e mi dice: "Questa, Ciccio, è
la busta paga che arriva puntualmente dal ministero dell'Interno". Frase che
all'istante scambio per una battuta, per uno scherzo tra carcerati: sbagliando.
Qualche tempo dopo, un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che,
per recapitare soldi a Moretti, lo hanno fatto risultare come un insegnante di
informatica, e in quanto tale è stato retribuito. L'ennesimo mistero tra i
misteri del caso Moro, dico a me stesso; l'ennesima zona grigia in questa storia
tragica.
Riccardo Bocca (L'Espresso, 22 settembre 2009)
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