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Cossiga: «Potessi tornare indietro starei zitto»
02/08/2009 - Corriere della Sera - Marzio Breda  
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Cossiga vent’anni dopo le picconate «Potessi tornare indietro starei zitto»
«Dissi che servivano le riforme ma nella Dc nessuno capì e neanche nel Pci, tranne D’Alema»
L’intervista - L’ex capo dello Stato: facevo il matto per poter dire la verità

 

A vent’anni dalla sua prima picconata, rifarebbe tutto, presidente Cossiga?

«No, proprio no. Non ne valeva la pena. Se potessi tornare indietro, me ne starei zitto e buono. Se allora mi fossi comportato così, probabilmente mi avrebbero rieletto, e c'era una quota di mondo politico che lo voleva. Ma ero incazzato come una belva e non potevo tacere».

Sarebbe dunque stato meglio lasciare le cose come stavano, visto quello che è venuto dopo?

«A parte il fatto che una Seconda Repubblica non è mai nata e l'ibrido che c'è oggi sta ormai morendo, chissà che cosa sarà la Terza. Pensando ai vecchi tempi, il dualismo Dc-Pci funzionava molto meglio del bipolarismo barbarico di adesso, se non altro perché un accordo lo si trovava sempre. Mentre ora ci si scontra quotidianamente con la bava alla bocca, senza combinare niente di buono».

È passata una generazione da quando Francesco Cossiga lanciò il primo segnale della svolta che sarebbe sfociata nella traumatica «era del piccone». Il 9 novembre 1989 era crollato il Muro di Berlino e l'allora presidente della Repubblica giudicò l'evento un'occasione liberatoria anche per l'Italia. Di cui approfittare subito. Insomma: era il momento di rimuovere quel «fattore K» che aveva relegato il Pci fuori dalla stanza dei bottoni costringendoci a «un’alternanza di governi senza alternative al governo» e di riformare in profondità le istituzioni. Per il suo avvertimento il capo dello Stato usò il messaggio di fine anno. «Sono cambiate tante cose all'Est... siamo a un nuovo punto di partenza, anche noi italiani abbiamo bisogno del vento della libertà».

Qualcuno definì «enigmatico» il messaggio...

«Invece era chiarissimo. Spiegavo che il Muro era caduto addosso pure a noi. Che bisognava abolire la conventio ad excludendum verso i comunisti, chiudere la 'guerra fredda interna' ed emancipare il cosiddetto arco costituzionale. Denunciavo che il sistema non reggeva più. Che serviva una rigenerazione istituzionale, un secondo tempo per la Repubblica. E lasciavo intendere che, se non avessimo fatto nulla, ci avrebbero preso a pietrate per le strade».

Era, insomma, una profezia della catastrofe.

«Sì. Venne da me Antonio Gava, un potente della Dc, il mio partito, per chiedermi che cosa volessi mai. Tentai di dirglielo e non capì. Ma anche nel Pci-Pds il discorso fu giudicato criptico: tranne D'Alema, nessuno capiva. Avevano sempre vissuto all'opposizione e sull'opposizione, non era facile per loro pensare di assumersi responsabilità di governo. Più comodo sospettarmi e, più tardi, attaccarmi».

E lei ha ricambiato con gli interessi. Fu allora che cominciò la sua seconda vita?

«Ci furono varie tappe: il discorso del Capodanno 1989, un intervento a Edimburgo nel quale approfondivo l'urgenza di 'ampliare l'ambito della democrazia' cancellando l’interdetto politico verso il Pci, e infine il mio messaggio alle Camere. Erano gli anni del patto tra Craxi, Andreotti e Forlani, il Caf. Sollecitavo la grande riforma di cui c’era bisogno per schivare la crisi che stava per esplodere. Andreotti, all'epoca premier, rifiutò di controfirmare il documento per la presentazione in Parlamento perché, si difese, non lo condivideva. Lo firmò il ministro della Giustizia Martelli. Fu il momento più difficile, per me. Sembravano tutti ciechi».

Cossiga «l'incompreso»: è la sua eterna autodifesa.

«Purtroppo era così. Tornò al Quirinale il povero Gava. 'Francesco, ma cosa vuoi? Perché ti agiti tanto per questa riforma? Abbiamo lavorato benissimo per quarant'anni con questo sistema, possiamo farlo per altri quaranta'. Socialisti, liberali, repubblicani votarono a favore e, nell' ex Pci, il costituzionalista Barbera. Tutti gli altri sostenevano che il mio era un progetto ad alto rischio, quasi eversivo. Non sapevano che ad aiutarmi a stendere il messaggio erano stati Amato e Martinazzoli » .

Nessuno dei due certo accusabile di «frenesie autoritarie». Ma quella stagione fu un incrocio di complotti. Lei parlava di una congiura per spodestarla dal Colle, tirarono fuori Gladio.

«Dissero che ero il tutore di quella struttura clandestina europea chiamata Stay Behind, e da noi Gladio, accusata di mille nefandezze. Era comodo prendersela con me, nonostante avessi avuto un ruolo poco più che marginale. Ero il Cossiga 'amerikano' e le uniche firme trovate sui documenti erano mie, anche se chi autorizzò per primo l'accordo con la Cia e con gli inglesi fu Moro insieme a Taviani, con la consulenza di Enrico Mattei. Senza contare che tutti i presidenti del Consiglio sapevano. Ho domandato ad Andreotti perché avesse rivelato il segreto e mi ha risposto che, cessata la guerra fredda, non c'era più motivo di tacere. Una volta il premier inglese Major mi chiese: 'Era proprio necessario dirlo?'. Beh, lasciamo perdere...».

Gladio fu un capitolo dell'«intrigo» per farla dimettere?

«Ci fu anche una cena a casa di Eugenio Scalfari alla quale era presente, tra gli altri, il gran borghese del Pri, Visentini. Si parlava di me e a un certo punto Scalfari disse: 'Se non riusciamo a metterlo sotto impeachment, facciamo almeno votare una mozione al Parlamento perché sia sottoposto a perizia psichiatrica'. Mi volevano mandare a casa con la camicia di forza. Visentini raccontò la cosa al liberale Altissimo, che mi telefonò subito. A quel punto, potevo mai stare zitto?»

E infatti, come tutti ricordano, non tacque.

«Dicevano che ero in preda a una 'tempesta neuro-vegetativa'. In realtà facevo il matto per poter dire la verità, come il fool del teatro elisabettiano. Ero incazzato perché non mi capivano né i comunisti né la Dc, per la quale restavo un irregolare... Ero incazzato come il sardo che sono, e lei sa che ho antenati pastori, testardi e durissimi » .

Certe sue esternazioni restano memorabili per le stilettate incendiarie verso i suoi nemici.

«Di alcune, premeditati atti di legittima difesa, ho chiesto scusa. Per esempio mi sono pentito della definizione di 'zombie con i baffi' ad Achille Occhetto».

Lo shock era che lei bombardava il quartier generale, come aveva fatto Mao durante la rivoluzione culturale in Cina.

«Precisamente. E il quartier generale, che era il vertice della Dc, non capiva nulla » .

Nessun altro pentimento, oggi?

«Mi ero fatto patrocinatore di un salto nel futuro, ma ero troppo in anticipo. Taviani, nelle sue memorie, scrive che sarei stato un buon politico se avessi pensato meno al passato e al futuro, concentrandomi sul presente. Ecco il mio errore: volevo liberare un sistema bloccato, ma ho fatto il passo più lungo della gamba. E il cerchio che avevo aperto nell'89 si è chiuso solo molto dopo, con il traghettamento dei post-comunisti al governo, quando creai un partito transitorio proprio per questo scopo, l'Udr, e proposi al mio successore al Quirinale, Scalfaro, di affidare a D'Alema l'incarico di formare il governo. Il passaggio era completato. Quella sera andai a cena con Berlusconi (senza la D’Addario, beninteso) e cercai di convincerlo ad astenersi, ciò che sarebbe stato il mio capolavoro... non ce la feci».

Presidente Cossiga, se lei ha contribuito a emancipare gli ex comunisti, ha visto però cadere nel vuoto la sua richiesta di grandi riforme.

«E' così. Sono stati vent'anni sprecati e la mia storia resta soltanto una testimonianza a uso degli storici. Le riforme non hanno voluto farle. Il giorno in cui Berlusconi mi anticipò che voleva presentare la sua riforma della Costituzione, quella bocciata dal referendum, gli dissi: perché non prendi la proposta uscita dalla Bicamerale di D'Alema e la presenti tale e quale? Lì dentro c'è tutto: l'assetto semipresidenziale dello Stato, l'elezione diretta del presidente della Repubblica, la divisione delle carriere in magistratura, la riforma della stessa Corte costituzionale... tu presentala e voglio vedere come farà il centrosinistra a non votarla».

Marzio Breda (Corriere della Sera, 2 agosto 2009)

 

 

       

 

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