Cossiga vent’anni dopo le picconate «Potessi tornare indietro starei
zitto»
«Dissi che servivano le riforme ma nella Dc nessuno capì e
neanche nel Pci, tranne D’Alema»
L’intervista - L’ex capo dello Stato: facevo il matto per poter
dire la verità
A vent’anni dalla sua prima picconata, rifarebbe tutto, presidente Cossiga?
«No, proprio no. Non ne valeva la pena. Se potessi tornare indietro, me ne
starei zitto e buono. Se allora mi fossi comportato così, probabilmente mi
avrebbero rieletto, e c'era una quota di mondo politico che lo voleva. Ma ero
incazzato come una belva e non potevo tacere».
Sarebbe dunque stato meglio lasciare le cose come stavano, visto quello che è
venuto dopo?
«A parte il fatto che una Seconda Repubblica non è mai nata e l'ibrido che
c'è oggi sta ormai morendo, chissà che cosa sarà la Terza. Pensando ai vecchi
tempi, il dualismo Dc-Pci funzionava molto meglio del bipolarismo barbarico di
adesso, se non altro perché un accordo lo si trovava sempre. Mentre ora ci si
scontra quotidianamente con la bava alla bocca, senza combinare niente di
buono».
È passata una generazione da quando Francesco Cossiga lanciò il primo segnale
della svolta che sarebbe sfociata nella traumatica «era del piccone». Il 9
novembre 1989 era crollato il Muro di Berlino e l'allora presidente della
Repubblica giudicò l'evento un'occasione liberatoria anche per l'Italia. Di cui
approfittare subito. Insomma: era il momento di rimuovere quel «fattore K» che
aveva relegato il Pci fuori dalla stanza dei bottoni costringendoci a
«un’alternanza di governi senza alternative al governo» e di riformare in
profondità le istituzioni. Per il suo avvertimento il capo dello Stato usò il
messaggio di fine anno. «Sono cambiate tante cose all'Est... siamo a un nuovo
punto di partenza, anche noi italiani abbiamo bisogno del vento della libertà».
Qualcuno definì «enigmatico» il messaggio...
«Invece era chiarissimo. Spiegavo che il Muro era caduto addosso pure a noi.
Che bisognava abolire la conventio ad excludendum verso i comunisti, chiudere la
'guerra fredda interna' ed emancipare il cosiddetto arco costituzionale.
Denunciavo che il sistema non reggeva più. Che serviva una rigenerazione
istituzionale, un secondo tempo per la Repubblica. E lasciavo intendere che, se
non avessimo fatto nulla, ci avrebbero preso a pietrate per le strade».
Era, insomma, una profezia della catastrofe.
«Sì. Venne da me Antonio Gava, un potente della Dc, il mio partito, per
chiedermi che cosa volessi mai. Tentai di dirglielo e non capì. Ma anche nel
Pci-Pds il discorso fu giudicato criptico: tranne D'Alema, nessuno capiva.
Avevano sempre vissuto all'opposizione e sull'opposizione, non era facile per
loro pensare di assumersi responsabilità di governo. Più comodo sospettarmi e,
più tardi, attaccarmi».
E lei ha ricambiato con gli interessi. Fu allora che cominciò la sua seconda
vita?
«Ci furono varie tappe: il discorso del Capodanno 1989, un intervento a
Edimburgo nel quale approfondivo l'urgenza di 'ampliare l'ambito della
democrazia' cancellando l’interdetto politico verso il Pci, e infine il mio
messaggio alle Camere. Erano gli anni del patto tra Craxi, Andreotti e Forlani,
il Caf. Sollecitavo la grande riforma di cui c’era bisogno per schivare la crisi
che stava per esplodere. Andreotti, all'epoca premier, rifiutò di controfirmare
il documento per la presentazione in Parlamento perché, si difese, non lo
condivideva. Lo firmò il ministro della Giustizia Martelli. Fu il momento più
difficile, per me. Sembravano tutti ciechi».
Cossiga «l'incompreso»: è la sua eterna autodifesa.
«Purtroppo era così. Tornò al Quirinale il povero Gava. 'Francesco, ma cosa
vuoi? Perché ti agiti tanto per questa riforma? Abbiamo lavorato benissimo per
quarant'anni con questo sistema, possiamo farlo per altri quaranta'. Socialisti,
liberali, repubblicani votarono a favore e, nell' ex Pci, il costituzionalista
Barbera. Tutti gli altri sostenevano che il mio era un progetto ad alto rischio,
quasi eversivo. Non sapevano che ad aiutarmi a stendere il messaggio erano stati
Amato e Martinazzoli » .
Nessuno dei due certo accusabile di «frenesie autoritarie». Ma quella
stagione fu un incrocio di complotti. Lei parlava di una congiura per
spodestarla dal Colle, tirarono fuori Gladio.
«Dissero che ero il tutore di quella struttura clandestina europea chiamata
Stay Behind, e da noi Gladio, accusata di mille nefandezze. Era comodo
prendersela con me, nonostante avessi avuto un ruolo poco più che marginale. Ero
il Cossiga 'amerikano' e le uniche firme trovate sui documenti erano mie, anche
se chi autorizzò per primo l'accordo con la Cia e con gli inglesi fu Moro
insieme a Taviani, con la consulenza di Enrico Mattei. Senza contare che tutti i
presidenti del Consiglio sapevano. Ho domandato ad Andreotti perché avesse
rivelato il segreto e mi ha risposto che, cessata la guerra fredda, non c'era
più motivo di tacere. Una volta il premier inglese Major mi chiese: 'Era proprio
necessario dirlo?'. Beh, lasciamo perdere...».
Gladio fu un capitolo dell'«intrigo» per farla dimettere?
«Ci fu anche una cena a casa di Eugenio Scalfari alla quale era presente, tra
gli altri, il gran borghese del Pri, Visentini. Si parlava di me e a un certo
punto Scalfari disse: 'Se non riusciamo a metterlo sotto impeachment, facciamo
almeno votare una mozione al Parlamento perché sia sottoposto a perizia
psichiatrica'. Mi volevano mandare a casa con la camicia di forza. Visentini
raccontò la cosa al liberale Altissimo, che mi telefonò subito. A quel punto,
potevo mai stare zitto?»
E infatti, come tutti ricordano, non tacque.
«Dicevano che ero in preda a una 'tempesta neuro-vegetativa'. In realtà
facevo il matto per poter dire la verità, come il fool del teatro elisabettiano.
Ero incazzato perché non mi capivano né i comunisti né la Dc, per la quale
restavo un irregolare... Ero incazzato come il sardo che sono, e lei sa che ho
antenati pastori, testardi e durissimi » .
Certe sue esternazioni restano memorabili per le stilettate incendiarie verso
i suoi nemici.
«Di alcune, premeditati atti di legittima difesa, ho chiesto scusa. Per
esempio mi sono pentito della definizione di 'zombie con i baffi' ad Achille
Occhetto».
Lo shock era che lei bombardava il quartier generale, come aveva fatto Mao
durante la rivoluzione culturale in Cina.
«Precisamente. E il quartier generale, che era il vertice della Dc, non
capiva nulla » .
Nessun altro pentimento, oggi?
«Mi ero fatto patrocinatore di un salto nel futuro, ma ero troppo in
anticipo. Taviani, nelle sue memorie, scrive che sarei stato un buon politico se
avessi pensato meno al passato e al futuro, concentrandomi sul presente. Ecco il
mio errore: volevo liberare un sistema bloccato, ma ho fatto il passo più lungo
della gamba. E il cerchio che avevo aperto nell'89 si è chiuso solo molto dopo,
con il traghettamento dei post-comunisti al governo, quando creai un partito
transitorio proprio per questo scopo, l'Udr, e proposi al mio successore al
Quirinale, Scalfaro, di affidare a D'Alema l'incarico di formare il governo. Il
passaggio era completato. Quella sera andai a cena con Berlusconi (senza la
D’Addario, beninteso) e cercai di convincerlo ad astenersi, ciò che sarebbe
stato il mio capolavoro... non ce la feci».
Presidente Cossiga, se lei ha contribuito a emancipare gli ex comunisti, ha
visto però cadere nel vuoto la sua richiesta di grandi riforme.
«E' così. Sono stati vent'anni sprecati e la mia storia resta soltanto una
testimonianza a uso degli storici. Le riforme non hanno voluto farle. Il giorno
in cui Berlusconi mi anticipò che voleva presentare la sua riforma della
Costituzione, quella bocciata dal referendum, gli dissi: perché non prendi la
proposta uscita dalla Bicamerale di D'Alema e la presenti tale e quale? Lì
dentro c'è tutto: l'assetto semipresidenziale dello Stato, l'elezione diretta
del presidente della Repubblica, la divisione delle carriere in magistratura, la
riforma della stessa Corte costituzionale... tu presentala e voglio vedere come
farà il centrosinistra a non votarla».
Marzio Breda (Corriere della Sera, 2 agosto 2009)
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