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«È ora di dirlo, certe bombe erano di destra»
Ha già detto molto. È sera, una libreria del gruppo Arion. Per tutta la
presentazione Maurizio Gasparri ha parlato di anni di piombo, stragi, piccola e
grande storia, fra aneddoti personali e micro-rivelazioni. Ma, giunto alla fine,
quando i due giornalisti presenti al tavolo - il collega Francesco Bei de La
Repubblica e chi scrive - gli chiedono un giudizio sintetico, il capogruppo del
Pdl in Senato si spinge più in là.
Prima di andarsene, infatti, Gasparri getta nello stagno l'ultimo sasso. È un
piccolo strappo, quello in cui nessun dirigente della destra ex missina si è mai
cimentato: «Sono convinto che alcune di quelle bombe, che hanno insanguinato
l'Italia negli anni Settanta, le abbiano messe persone ascrivibili all'area
della destra».
Altre domande. Perché dice questo solo ora? «L'ho sempre pensato: se me lo
chiedono rispondo, così come sono convinto di un'altra cosa: con la strage di
Bologna Fioravanti e la Mambro non c'entrano nulla». Perché queste cose non le
ha mai dette nessun altro, in An, da Fini in giù? Sorriso: «Ehhh... Rispondo per
me, dovete chiederlo a Fini».
Lui prosegue così: «In quella che è stata definita la galassia neofascista
c'erano molti, come me, che venivano considerati stragisti, ed invece erano
vittime delle stragi come e più degli altri. E c'era anche qualche mente bacata,
che immaginando chissà quale palingenesi folle, pensava che si potesse
realizzarla a colpi di scure».
L'occasione per entrare in questo terreno (letteralmente) minato l'ha offerta
un libro uscito diversi mesi fa, Il sangue e la celtica di Nicola Rao (Sperling
& Kupfer). Un saggio che ricostruisce la strategia della tensione, per la prima
volta, con le testimonianze di tanti protagonisti della destra estrema. Un libro
che conosco bene: è apparso in una collana curata da me.
"Il sangue e la celtica" ha suscitato molte polemiche alla sua uscita, ma
curiosamente è stato ignorato dalla stampa di sinistra. Gasparri, invece,
accetta l'invito di Rao e ne approfitta per un racconto sorprendente: «Sono del
1956, ma entro al liceo Tasso nel 1969, perché ero un anno avanti. A dicembre,
quando scoppia la bomba, sono considerato "il missino" della scuola. C'è qualche
imbecille che pensa di vendicare la strage riempiendo di botte me...».
In sala qualcuno sorride, altri imprecano, Gasparri stupisce ancora. Alla
domanda se abbia mai inneggiato ai golpisti, risponde: «Anch'io ho gridato lo
slogan "Ankara-Atene-Adesso Roma viene". Non perché odiassi la democrazia... Ci
sembrava che quelle dittature fossero una risposta estrema, ma necessaria,
all'avanzata del comunismo nel mondo.
So che sembra una follia, ma allora c'erano regimi militari, para-militari o
neofascisti in Turchia, in Grecia, in Portogallo, in Spagna, dove era ancora
vivo Franco. Insomma, sembrava che ad essere in minoranza, nel Vecchio
continente, fossero le democrazie».
Poi il capogruppo fa una pausa: «Ho gridato anche "Basta con i bordelli/
vogliamo i colonnelli!". Ricordo bene il colonnello Papadopoulos e il suo vice
Patakòs. Ma le cose sono complesse, per noi contava molto di più la situazione
italiana. Nel 1972 il Msi è al suo massimo storico, lo slogan era: "Arriva
maggio/ forza e coraggio"».
Nel libro di Rao si parla anche del golpe Borghese. Gasparri qui è prudente:
«Ci vado cauto, perché negli anni, nell'ambiente, mi capitava di incontrare
persone molto più giovani di me - all'epoca avevo 14 anni! - che mi dicevano:
"Sai, nella palestra di via Eleniana, quando fu dato il contrordine io c'ero".
Ed è così che ho scoperto che, fra tanti innocenti e tanti responsabili,
c'erano anche evidenti millantatori e mitomani che raccontavano eventi di cui
non potevano essere testimoni. Ho letto di mitragliette al Viminale, Rao ne
scrive. So che i forestali uscirono dalle caserme... Ma la ricostruzione più
fedele di quel golpe l'ha data un film».
Quale? «L'indimenticabile Vogliamo i colonnelli di Monicelli. Quello in cui i
golpisti arrivano ad occupare la Rai, per leggere il proclama, e scoprono che è
troppo tardi perché sono finite le trasmissioni. Era così! Minacciano di morte,
tirano fuori le pistole, nulla da fare. Gli rispondono: "Ahò, nun se pò fà
nulla, se ne so' annati via pure i tecnici"».
Poi Gasparri torna alla copertina del libro, in cui sono raffigurati tre topi
(identici a quelli che i ragazzi de La voce della Fogna avevano scelto, come
proprio alter ego, nella rivista satirica più famosa nata nel Fronte della
Gioventù): «Ne avete messi in scena tre. Uno con l'ascia bipenne, uno con gli
occhiali da agente dei servizi segreti e uno perplesso e spaventato, col dito
sulla bocca. Bene, io appartenevo alla terza categoria. Credo che molte delle
cose che sono state raccontate non siano vere, che su alcune si debba fare luce,
ma sono anche sicuro che qualcosa c'è stato, che non è un... complotto
comunista.
Qualcuno dei ragazzi della destra più radicale, diciamo anche estrema, ha
fatto da manovalanza a persone che avevano altri disegni. Altri erano in preda a
un delirio distruttore. Ma certezze sui responsabili materiali non ne ho, non ne
ha trovate nemmeno la magistratura».
Poi due battute (neanche troppo) su altri due punti di cui si tratta nel
libro. Il cosiddetto «Sessantotto nero» (a partire dalla famosa foto degli
Avanguardisti a Valle Giulia): «Chi dice che erano da un lato della strada, chi
dice che erano dall'altro con i rossi; a destra per molti fu un'occasione persa.
Io dico: meno male che è stata persa! Perché in ogni caso, per quelli di destra,
essere lì era un errore. I voti del 1972 arrivano all'insegna del motto "legge e
ordine"».
E sul congresso del luglio '60: «È venuto a trovarmi Caradonna, al Senato, e
ha fatto una battuta strepitosa: "Capisci, Maurizio? Se l'avessimo fatto a
Napoli, invece che in una città medaglia d'oro della Resistenza, saremmo stati
al governo 30 anni prima". Sono d'accordo: il congresso andava fatto a Capri, in
bermuda e zatteroni, non avrebbe prodotto nemmeno un morto!».
Luca Telese (Il Giornale, 18 maggio 2009)
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