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Mughini: «Adriano Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi»
15/05/2009 - Corriere della Sera - Aldo Cazzullo  
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La ricostruzione dell’ex direttore del giornale di Lc
Mughini: «Adriano Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi»

Lotta continua e la grande bugia degli innocentisti. Una requisitoria durissima

Giampiero Mughini ha in casa una cartelli­na intitolata «La confessione di Sofri». Dentro c’è il ritaglio dell’articolo che il fondatore di Lotta continua ha pubblicato sul Foglio un an­no fa, e che Mughini considera «la sconcertan­te e drammatica prima puntata di una parzia­le 'confessione' sul come sono andate le cose a via Cherubini», la strada milanese dove fu assassinato il commissario Calabresi. Ma So­fri, scrive Mughini, «rimane in debito con la verità». Ed è Sofri il vero destinatario del li­bro che Mondadori manderà in libreria la prossima settimana, Gli anni della peggio gio­ventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione. Un libro che è una requisito­ria durissima contro Lotta continua, fatta da un gior­nalista che — pur non par­tecipando alla fattura — i settimanali di Lc li ha diret­ti.

Quell’articolo del 2008, Mughini lo traduce così: «Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi, ma non ne era stato il responsabi­le, non era stato quello che l’aveva decisa e ordinata». Eppure si addossa tutta in­tera la storia della sua orga­nizzazione, al punto da de­finire «non malvagi» e an­zi «mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime» gli autori dell’omi­cidio Calabresi. Deduce Mughini che «se uno spen­de parole talmente impe­gnative nei confronti di chi uccise Calabresi, vuol dire che li conosce per no­me e cognome e curri­culum».

La ricostruzione di Mughini comincia a Pisa, il 13 maggio 1972, il giorno del comizio di Sofri al termine del quale Marino avrebbe ricevuto il mandato a uccidere. Mughini quel giorno c’era. E, scrive, «non è vero che a comi­zio concluso sarebbe stato assolutamente im­possibile, a causa della pioggia battente, bivaccare ancora un po’ in piazza». Perché «la piog­gia in quel momento era finita». «C’era stato, lo dico in via di ipotesi, il tempo perché alme­no un attimo si incontrassero» Sofri e Marino. Anche perché «non è vero quel che ha so­stenuto con veemenza la difesa, che i bar pisa­ni fossero chiusi quel pomeriggio del 13 maggio. Non lo erano affatto». In ogni caso, Mughini precisa: «Io non reputo che Sofri abbia dato l’ordine di uccidere. O più precisamente non lo reputo provato. Che è poi la sola cosa che conta». E chiede al presidente della Re­pubblica di dargli la grazia. Ma non rinuncia a denunciare un’ipocrisia collettiva.

Ricorda di aver provato, alla notizia della morte di Cala­bresi, «orrore che lo avessero fatto dei 'compagni', cosa di cui non dubitavo allora e di cui nessuno in Italia ha mai dubitato veramen­te»; eppure «è lunga la fila di intellettuali e giornalisti convinti della colpevolezza di Lc, che non aprono bocca per non disturbare la platea dei loro lettori di sinistra». E denuncia quello che definisce il «fanatismo innocenti­sta», «una Grande Bugia e una Grande Ipocri­sia che non hanno alcun fondamento nei fatti processuali e nelle relative sentenze».

I suoi bersagli polemici sono illustri. Luigi Manconi: «Non ho dubbi, Manconi lo ha sapu­to da subito come andarono esattamente le co­se nel maggio 1972». Carlo Ginzburg: «La tesi secondo cui la confessione di Marino sarebbe stata concertata da magistrati e carabinieri è talmente risibile che in un processo di qualsia­si altro tipo non sarebbe stata presa in consi­derazione dai giornali e dall’opinione pubbli­ca neppure cinque minuti. Ancor più risibile la tesi che le sentenze dei giudici di primo gra­do e poi d’appello fossero animate da una sor­ta di spirito di 'vendetta' contro quelli di Lc, personaggi di cui all’alba dei Novanta non si ricordava più nessuno». Antonio Tabucchi, che «si è dato a recitare sgangheratamente la parte che era stata di Emile Zola nell’'Affaire Dreyfus'». Gad Lerner, cui Mughini rimprove­ra una frase detta in tv — «Lotta continua non c’entrava proprio niente con la violenza dei Settanta» —, mentre «quelli di Lc nel 1972 nella violenza e nella sua apo­logia c’erano dentro fino al collo, ne erano ebbri».

Ma l’interlocutore resta co­munque Sofri. Per cui Mughini ha parole di stima e affetto, ma ha anche paro­le severe («lasciamo stare l’argomento ripetu­to da tanti, 'lo conoscevo, non può averlo fatto'. È un argomento che vale niente»), anche a proposito del suo ultimo libro, La notte che Pinelli, in cui «un po’ crede e un po’ ammic­ca» a «inumane panzane» sulla morte del­l’anarchico. Compresa «l’evocazione di una macelleria sudamericana da contrapporre simbolicamente al lutto e al pudore di cui tra­boccava il recente e fortunatissimo libro di Mario Calabresi. Un libro che per gli ex di Lot­ta continua è stato uno schiaffo in volto più violento che non una sentenza di tribunale».

Gli «anni della peggio gioventù» rivivono attraverso la reazione euforica di Lc all’assassi­nio in Argentina del dirigente Fiat Oberdan Sallustro. L’arresto di Maurizio Pedrazzini sul­le scale della casa milanese del missino Servello, in pugno una pistola proveniente dalla ra­pina a un’armeria raccontata ai giudici da Ma­rino. Le telefonate dei compagni in casa Sofri, il giorno dell’arresto: «È Marino che ha parla­to?». Le «vanterie» di Chicco Galmozzi, ex Lc, rivolte ai brigatisti: «Mentre voi ancora brucia­vate macchine, noi sparavamo a Calabresi». E quella scena terribile, la vedova che esce dall’obitorio dove ha riconosciuto il cadavere del marito, e viene accolta da estremisti di sini­stra che la scherniscono, con il fratello che le copre la testa dicendo di non ascoltare. «Un’immagine che mi porto appresso da tanti anni — scrive Mughini —, l’immagine che ha fatto scattare l’idea di scrivere questo libro. Qualcosa che attiene a un debito. Perché quel­li che schernivano Gemma Calabresi erano co­munque i miei compagni di generazione».

Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 15 maggio 2009 )

 

       

 

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