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Galloni: quando Kissinger minacciò Moro
Saverio Occhiuto
A Pescara l’ex ministro rivela due retroscena nel rapimento dello statista Dc
PESCARA. Può apparire
singolare - ma non per la storia d’Italia - che a 29 anni dalla morte di Aldo
Moro, Giovanni Galloni avverta il bisogno di suggerire «una
commemorazione di tipo nuovo» dell’amico statista rapito dalle Brigate Rosse il
16 marzo del 1978 e ucciso il 9 maggio dello stesso anno.
Da Pescara, ospite assieme a Mauro Fotia di un recente convegno
organizzato dall’Istituto “Spataro”, è lo stesso ex Guardasigilli ad annunciare
un suo libro-testimonianza di prossima pubblicazione su via Fani e dintorni.
«Ci sono dei fatti nuovi da scoprire e da introdurre», dice Galloni, «perché
non tutte le cose su Moro sono state dette, soprattutto quelle che riguardano la
sua fine».
Perché solo adesso?
Perché, a quasi trent’anni di distanza dalla strage di via Fani e dal
ritrovamento del cadavere di Moro nel bagagliaio della famosa R4 rossa,
l’ultraottantenne Giovanni Galloni avverte la necessità di riaprire questo
capitolo della storia italiana e, soprattutto, della Democrazia Cristiana di cui
entrambi furono esponenti di primissimo piano?
Gli aspetti ancora nell’ombra, per Galloni, sono soprattutto due: «Le quattro
sentenze che ci sono state sulla morte di Moro non hanno soddisfatto la
magistratura. Una parte di quei magistrati, compreso il fratello di Moro, mi ha
detto di aver rifiutato i verdetti dei tribunali. Sono convinti che le Br
abbiamo negato di avere avuto alle loro spalle altri esecutori solo per ottenere
degli sconti di pena, che ci sono stati. E ora anche questo va chiarito».
L’altra questione messa sul tavolo da
Galloni riguarda l’interpretazione autentica della strategia politica di Moro:
«E’ giunto anche il tempo di chiarire perché Moro abbia parlato di una terza
fase. E qui mi riferisco soprattutto a colloqui personali avuti con lui poco
prima di via Fani: il bipolarismo di cui oggi tanto si parla. Per capire cosa
Moro volesse dire parlando di terza fase, bisogna anche approfondire che cosa
intendesse per prima e seconda fase.
I più hanno sempre ritenuto che per prima fase Moro intendesse la politica
centrista, per la seconda fase la politica di centrosinistra e per la terza
quella della solidarietà nazionale. Non è così. La mia vicinanza continua con
Moro, di oltre venti anni, mi dice che per prima fase egli intendeva quella
della resistenza, della lotta antifascista, della Costituente. E non si trattava
affatto, come già allora i giornali dicevano, di un compromesso ideologico tra
cattolici e marxisti ma del superamento delle rispettive posizioni per cercare
di avviare qualcosa di nuovo».
Ed ecco la seconda fase secondo
Galloni: «Quale era stata la grande illusione, prima di
De Gasperi e poi di Moro? Quella che
formando un governo insieme con i partiti laici, ai quali eravamo contrapposti
da posizioni ideali, si creassero le condizioni per arrivare in Italia ad una
democrazia compiuta, come esisteva negli altri paesi europei.
Democrazia compiuta per De Gasperi era l’esistenza di quel bipolarismo per cui
da una parte c’erano partiti di ispirazione cristiana e dall’altra partiti di
ispirazione socialista e democratica».
«L’illusione di De Gasperi era quella
di portare avanti la socialdemocrazia di
Saragat, con l’idea che questa potesse ad un certo momento assumere
quella funzione che negli altri paesi europei avevano assunto i partiti
socialisti, cosa che non avvenne, perché in Italia la realtà del partito
comunista era diversa e radicata nella situazione italiana».
La politica bifronte: «I
condizionamenti internazionali e l’accordo di Yalta», spiega ancora Galloni,
«avevano portato l’Italia in una posizione di collaborazione con la Nato, ma
contemporaneamente a sostenere una linea di autonomia del nostro Paese rispetto
al regime occidentale. Una politica che in un primo momento fu portata avanti da
Mattei e altri per arrivare ad una
collaborazione con i paesi del Medio Oriente e, soprattutto, di pacificazione
tra Israele e Palestina. Queste sono le linee sulle quali poi si sono battuti in
Italia Moro, Fanfani e lo stesso
Andreotti e da cui nacquero le
ostilità degli Stati Uniti».
Gli americani
non si fidano più. E Galloni spiega anche questo: «Nel 1974, il
presidente Ford e
Kissinger (allora ministro degli
esteri e capo della Cia) convocarono a Washington il nostro presidente della
Repubblica, che era Giovanni Leone e
il ministro degli Esteri, Moro. Gli americani erano preoccupati per le frasi di
Aldo Moro, quando, dopo il referendum sul divorzio, iniziò a parlare
dell’attenzione che si doveva rivolgere al partito comunista. Ad un certo
momento della riunione Kissinger chiamò Moro e gli disse chiaramente che se
continuava su quella linea ne avrebbe avuto delle conseguenze gravissime sul
piano personale».
Una scoperta recente: «Di questa
minaccia di morte siamo venuti a conoscenza in modo più dettagliato solo pochi
anni fa. Oggi sappiamo che le dichiarazioni rese successivamente dai brigatisti
“noi siamo gli unici responsabili del rapimento Moro” non rispondono a verità e
siamo in grado di smentirle».
Ecco gli elementi forniti da Galloni a sostegno
di questa: «Primo, non tutti i partecipanti all’operazione militare del 16 marzo
1978 erano delle Brigate rosse. Alcuni di loro, che non si sono mai voluti
scoprire, non erano terroristi.
Dall’accertamento sui colpi esplosi in
via Fani risulta che non c’erano tra le Br uomini così esperti nell’uso delle
armi, perché i cinque uomini della scorta di Moro sono stati tutti uccisi da due
sole armi, utilizzate da uomini eccezionalmente esperti e che si suppone fossero
stati richiamati da Catania e dalla mafia calabrese. I nomi di queste due
persone non sono mai stati fatte. C’è poi una mia frase, una cosa che ho sempre
detto senza ottenere mai attenzione, su alcune confidenze che Moro mi fece
alcuni mesi prima di essere catturato. Mi disse che era preoccupato perché
riteneva che i servizi segreti degli Stati uniti e di Israele avessero degli
infiltrati nelle Br e se questi infiltrati ci avessero dato degli elementi
avremmo potuto scoprire facilmente i covi delle Br».
«Adesso ho la certezza che questa
stessa cosa Moro la riferì all’ambasciatore italiano a Washington, il quale si
mise in contatto con la Segreteria di Stato americana ricevendo un netto
diniego, anzi un diniego ambiguo: “Non è vero, tutto quello che sappiamo o
abbiamo saputo lo abbiamo sempre riferito ai servizi segreti italiani”».
«Quali servizi segreti?», si chiede oggi Galloni, «quelli veri o quelli, invece,
che erano in mano loro?».
Altro elemento: «Durante la prigionia
di Moro, attorno al 20 aprile, un ex capo dei servizi segreti italiani, un certo
Miceli (il generale passato poi nelle
file del Msi ndr) che era stato espulso dai servizi segreti perché compromesso
nel colpo di Stato di Borghese, parte in missione segreta e va a Washington dove
prende contatti con i più alti esponenti della Cia. Dopo di che si forma la
mentalità che Moro era riuscito ad ottenere dalle Br di essere liberato. Lo
dicono anche le ultime dichiarazioni dello stesso Moro in quel rapporto che fu
poi trovato dove lui afferma: “Devo, più che alla Democrazia cristiana che non è
voluta intervenire nelle trattative, alla benevolenza delle Brigate rosse che mi
hanno liberato”».
Ma nasce un
dubbio sollevato ancora oggi da Galloni: «Che per intervento della Cia
gli americani avessero deciso di liberare Aldo Moro, ma che questa operazione
non andò in porto. Infatti, Moro, fu solo illuso che lo avrebbero liberato: una
volta messo in macchina è stato ucciso».
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