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Guido Rossa un eroe normale
IL 24 GENNAIO del 1979 una ragazza di sedici anni scende lungo via Fracchia a
Genova, nel popolare quartiere di Oregina, per andare a scuola. Passa accanto a
una fila di auto parcheggiate lungo il muro. C’è anche una Fiat 850 di colore
rosso, con un uomo dentro, riverso sul sedile: è stato ucciso da un commando
delle Brigate Rosse. La studentessa non fa caso a quella vettura, cammina di
buon passo. Una volta arrivata a scuola, le racconteranno la tragica verità.
Quell’uomo è Guido Rossa, 44 anni, operaio dell’Italsider, sindacalista della
Fiom-Cgil, comunista. Quella ragazza è Sabina, sua figlia, che oggi siede in
Parlamento per il Partito democratico.
Da allora, chissà quante volte Sabina ha rivissuto con gli occhi della mente
il giorno che ha cambiato la sua vita e quella di tante altre persone. Lo ha
fatto anche per rispondere alle domande che gli studenti le pongono quando viene
invitata nelle scuole a raccontare che cos’erano gli anni di piombo, chi era e
cosa ha fatto suo padre. Guido Rossa venne ucciso, alle 6.35 mentre si stava
recando al lavoro, perché aveva denunciato il “postino” delle Br all’interno
della fabbrica, Francesco Berardi, e poi era andato a testimoniare contro di lui
al processo in Corte d’Assise.
La commemorazione di Guido Rossa si è trasformata nel corso del tempo, Sabina
lo ha avvertito in modo chiaro, netto: «Oggi non è più solo un momento di
ricordo, è diventato qualcosa di importante per l’intera collettività, credo che
abbia assunto un valore più generale, quello della lotta al terrorismo che si
riflette nella difesa delle istituzioni democratiche e di tutti coloro che
allora scelsero la via democratica e non risposero alla violenza con la
violenza».
Gli inviti a portare la propria testimonianza arrivano a Sabina Rossa da
tutta Italia, dalle grandi città ai paesi più sperduti, almeno una decina al
mese. «Da una parte» riflette «mi rendo conto del forte impatto che è rimasto
inalterato, intatto, a trent’anni di distanza, nei confronti del gesto che fece
quest’uomo e nei confronti di quello lui ha significato e rappresentato». Ma c’è
anche dell’altro, dietro al fatto di parlare di Guido Rossa nel 2009: «Mi viene
da pensare che nei momenti di crisi della politica, nei frangenti di maggiore
difficoltà, c’è un bisogno di ancorarsi a quei valori e a quei principi forti
che vanno a riassumere un’intera identità».
La morte di Guido Rossa fu uno spartiacque nella lotta al terrorismo.
L’uccisione di un operaio cambiò l’atteggiamento nei confronti dei brigatisti.
«Per quella parte della classe operaia che poteva ancora provare qualche
simpatia» dice Sabina Rossa «ha significato un netto cambio di posizione e di
rifiuto assoluto di quella sirena. Sappiamo che il motto “Né con lo Stato né con
le Brigate Rosse” ha avuto un forte peso in quegli anni negli ambienti della
politica e del mondo intellettuale». Quell’assassinio provocò contraccolpi
significativi anche all’interno dell’organizzazione terroristica, «causò
scompiglio e dissidio interno». Il comportamento tenuto da Guido Rossa era
connotato, sottolinea la figlia, anche da «lungimiranza politica»: «In un
momento di forte ideologia, in un clima di paura, di continui caduti e
ferimenti, non ha avuto momenti di indecisione anche rispetto a chi era su
posizioni più “garantiste”. Mio padre non era un cane sciolto: credo che abbia
identificato la volontà del partito comunista, dopo le sottovalutazioni
iniziali, di fare terra bruciata intorno alle Brigate Rosse, non solo sul piano
politico e culturale ma anche attraverso la collaborazione attiva con le forze
di polizia e con quell’apparato di intelligence interna, come mi ha poi
raccontato il senatore Lovrano Bisso, ovvero che mio padre aveva una sorta di
compito, cioè monitorare l’azione propagandistica all’interno della fabbrica».
Il principio a cui Guido Rossa aveva improntato la sua vita, «la chiave della
sua personalità», era il forte senso del dovere, in primo luogo verso se stesso:
«Quando riteneva che una cosa giusta andasse fatta, la faceva, assumendosene
anche i rischi e le possibili conseguenze, perché era chiaro a tutti, e credo
ancora di più a lui, che cosa avrebbe comportato una simile azione di denuncia».
Nei trent’anni trascorsi da quel 24 gennaio, Sabina Rossa ha cercato per
prima di sapere di più, di capire di più che cosa era accaduto, come e perché.
«È una ricerca che ha portato sicuramente nuovi elementi di verità, nuovi
scenari che prima non erano stati indagati a fondo. La mia affermazione che in
quell’operazione ci siano stati due livelli di comando credo sia assolutamente
consolidata: anche recentemente Valerio Morucci mi ha confermato che Riccardo
Dura aveva l’idea di uccidere Guido Rossa, e più volte aveva avuto modo di
esprimere questa sua posizione».
Su quegli anni così tragici per l’Italia, migliaia di pagine sono state
scritte, vari film sono stati girati, ma c’è ancora molto che resta non detto.
«Penso che oggi non ci sia più spazio per posizioni di omertà» dice Sabina Rossa
«in cui si dice e non si dice, dove coloro che hanno vissuto quegli anni ti
raccontano una parte e poi si fermano: per andare avanti, noi dobbiamo dare alle
nuove generazioni gli strumenti per capire, dobbiamo raccontare veramente che
cosa sono stati questi ultimi trent’anni di storia perché attraverso la memoria
sia possibile superare il passato e dare basi solide per affrontare il futuro.
Mi sento impegnata in questo compito».
plebe@ilsecoloxix.it (Il Secolo XIX, 21 gennaio 2009 )
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