Moro è caduto per aver troppo sentito e troppo osato
Moro è caduto per aver troppo sentito e troppo osato Politica e Cultura Nel
30° anniversario dell'assassinio di Aldo Moro, Agostino Saviano pubblica, nel
suo "Viaggio nella memoria", una lettera inedita del futuro statista che lascia
presagire il suo tragico destino. Nel libro anche un commento di Agostino
Spataro che rievoca quei giorni terribili dall'interno della Camera dei Deputati
Nelle avvincenti pagine autobiografiche del suo "Viaggio nella memoria"
Agostino Saviano rievoca taluni episodi accadutigli in un particolare momento
della sua lunga vita, nel vivo del secondo conflitto mondiale.
Un viaggio a ritroso dentro una guerra tremenda ai cui esiti erano affidate
da un lato le sorti della dittatura nazi-fascista e dal lato avverso le speranze
di dignità dei popoli. Una scommessa risolutiva in cui la posta erano la libertà
e il suo contrario.
Una vicenda umana, la sua, comune a tantissimi altri commilitoni, a milioni
d'europei che vissero la guerra chi al fronte e chi in città e paesi bombardati
e annichiliti dalla fame e dalle violenze di ogni tipo.
Insomma, un bel tratto di strada nel solco di una grande tragedia che portò
Saviano dalla sua Arzano alle aspre montagne d'Albania, dalla Puglia alle
sterminate steppe della Russia fra le vittime e i sopravvissuti della disastrosa
spedizione militare italiana.
Lungo questo tormentato percorso incontrerà tanta gente. Alcuni cadranno sul
campo, molti si sperderanno per il mondo, taluni affioreranno dal fantastico
gioco dei ricordi.
E fra quest'ultimi, il primo della lista è certamente il giovane
sergente-allievo Aldo Moro che l'Autore incontrò, casualmente, in terra di Bari.
Con Moro, che era già presidente nazionale della Fuci, Saviano spesso parlò
delle libertà negate e delle smisurate ambizioni imperialiste del fascismo.
Posizioni coraggiose, purtroppo isolate, che attireranno contro Saviano la dura
reazione del sistema.
Fra i due si stabilì una comunione di sentimenti antifascisti a quel tempo
molto rari e rischiosi, soprattutto all'interno delle forze armate.
Sentimenti ed umori che, sfidando le occhiute maglie della censura, sono
giunti a noi in forma d'epistola che Saviano ha gelosamente conservato e che
oggi ci rende come il dono più pregiato di questo suo libro di memorie.
Al solo sentir il fratello Franco parlare di una lettera inedita di Aldo Moro
ebbi come un sussulto, pensando a ben altre lettere che lo statista scrisse
durante quei terribili 55 giorni di prigionia, prima di essere assassinato dalle
Brigate rosse. Si tratta, invece, di corrispondenza fra commilitoni che la
guerra aveva allontanato. Una lettera del settembre 1942, sincera ed amichevole,
dalla quale traspare il disagio, l'avversione contro una guerra assurda e contro
la dittatura che l'aveva provocata.
"Alla tua anima, sconvolta, smarrita e desolata per aver troppo capito -
scrive Moro a Saviano- ho osato avvicinare la mia che conosceva uno stesso
dolore..."
Un passaggio molto significativo nel quale, oltre al richiamo ad un comune
sentire, si può apprezzare il senso di una rara sensibilità politica e morale
che quando non è temperata dall'autocensura può sfociare nel dramma.
Giacché il "troppo capire" può diventare un azzardo, quando capir non si
deve, né troppo né poco, ma solo obbedire ed eseguire! Ieri come oggi. Specie se
il troppo capire ti spinge ad osare oltre certi limiti.
Forse un giorno sapremo, o sapranno, la verità
La verità sul caso Moro è ancora lontana. Un caso o un affaire come lo definì
Leonardo Sciascia col quale più volte ebbi a parlare quando veniva a
Montecitorio.
Lo scrittore aveva ragione: quel tragico evento non poteva essere ridotto ad
un "caso", perché caso non era, ma un delitto politico complesso, ideato e
programmato in tutti i suoi aspetti militari e politici.
Forse, un giorno, sapremo (o sapranno) tutta la verità sull'affaire Moro.
Tuttavia, credo si possa senz'altro affermare che Egli è caduto per avere troppo
capito e troppo osato.
E qui mi fermo, perché desidero aggiungere al ricordo di Agostino Saviano
alcune mie impressioni sull'atmosfera che si respirava in Parlamento durante
quei 55 giorni e sulla figura e sul ruolo dell'on. Aldo Moro col quale-
chiarisco- non ho avuto alcuna relazione diretta, ma solo qualche scambio di
saluti.
Confesso che io, approdato giovanissimo in Parlamento nel 1976 sull'onda
della clamorosa avanzata elettorale del Pci, percepivo il gruppo dirigente della
Dc come un blocco dominante composito, talvolta anche rissoso, che, al bisogno,
sapeva far quadrato a difesa di un potere gretto, fine a se stesso che si voleva
conservare al governo, in eterno.
Un punto di vista piuttosto diffuso, giacché un po' questo era il volto del
potere democristiano, soprattutto in Sicilia e nel meridione.
Erano quelli i tempi del "governo dell'astensione" (del Pci). Una formula per
molti di noi deludente, indigeribile anche perché basata, sostanzialmente, solo
su un'intesa riservata, quasi sulla parola, fra Berlinguer e Moro.
Quell'accordo, tuttavia, produsse un clima di rasserenamento, di relativa
fiducia tra i partiti, soprattutto fra Dc e Pci che insieme disponevano di quasi
l'80% della rappresentanza parlamentare. Insieme i due partiti rappresentavano
l'anima popolare della società italiana, una vera superpotenza politica capace
di riformare finalmente il Paese. E le riforme- si sa- suscitano grandi speranze
ma anche grandi paure in chi se ne sente minacciato.
Preoccupazioni che si propagarono anche nel cuore dei principali centri
decisionali internazionali.
Saranno state la sorpresa e/o la paura del cambiamento o altro, fatto sta che
taluni settori della classe dirigente italiana si mostrarono poco convinti,
quando non ostili, nell'affrontare un passaggio così innovativo.
Cercai di capire questo travaglio. Ogni occasione era buona per scandagliare
atteggiamenti e comportamenti della classe dirigente.
Una mattina, partecipando ad una seduta della commissione esteri della
Camera, mi trovai davanti tutti i segretari e i presidenti dei partiti, di
governo e d'opposizione: Berlinguer, Craxi, Zaccagnini, Rumor, Piccoli, De
Martino, Spinelli, Ugo La Malfa, Pajetta, La Pira, Malagodi, Tanassi, Giolitti,
Colombo, Forlani, Aldo Moro...
Li scrutai da vicino, ad uno ad uno. Osservai i loro sguardi, i loro tic, i
movimenti minimi del viso, delle mani. Volevo capire cosa si nascondesse dietro
quei volti formali, impenetrabili. Arroganza, paura, inquietudine, solitudine?
Insomma, la prospettiva che s'andava ad aprire come e quanto influenzava i loro
comportamenti, le loro stesse personalità?
L'esame fu necessariamente sommario. A parte La Pira, che già poteva
considerarsi avviato verso la beatitudine celeste, mi colpirono soprattutto
Berlinguer e Moro per la loro espressione sofferta, quasi mesta. Era un po' il
loro carattere, ma - credo- vi influisse la consapevolezza del peso delle
responsabilità che s'erano assunte in quel frangente.
In quel consesso di capi-partito e di corrente vidi le stimmate di un potere
fatto di voti e presidenze. Moro e Berlinguer, invece, m'apparvero spogli di
poteri siffatti e perciò leader autentici che fondavano il loro carisma sulla
forza delle idee e dell'etica.
Un solo esempio. Aldo Moro capeggiava una fra le più piccole correnti
democristiane, eppure era stato l'architetto delle grandi svolte politiche della
"balena bianca" ed ora stava realizzando la sua ultima, più impegnativa fatica
per il completamento del disegno democratico tracciato dalla Costituzione.
Glielo hanno impedito ricorrendo alla strage, ad un delitto atroce.
Quella mattina alla Camera
La notizia della strage e del sequestro giunse veloce e terribile a
Montecitorio di prima mattina. Ricordo lo smarrimento di capi e gregari
democristiani, il nostro sgomento. Nel "transatlantico" le urla di pochi
soverchiavano i silenzi atterriti di tanti.
Antonello Trombadori, deputato ed ex gappista romano, correva come un pazzo
avanti e indietro gridando "al muro, al muro". Perfino un uomo misurato come Ugo
La Malfa giunse ad invocare in Aula la pena di morte.
Il giorno non fu scelto a caso: quel 16 marzo 1978 la Camera era stata
convocata per votare la fiducia al quarto governo Andreotti. Per la prima volta,
dopo trent'anni, il Pci entrava nella maggioranza anche se non rappresentato nel
governo. Un altro voto difficile, per noi, ma necessario per realizzare il
secondo passaggio dell'intesa strategica fra Moro e Berlinguer.
I nemici occulti di tale strategia decisero di fermarla al secondo passaggio,
giacché al terzo, che avrebbe visto i comunisti al governo, sarebbe stato
altamente rischioso.
Un disegno funesto, devastante, ideato da forze potenti, tutt'ora ignote, ben
più potenti delle Br che l'hanno eseguito. Almeno così in molti leggemmo la
vicenda sulla quale pesano ancora tante stranezze operative e alcuni
interrogativi riguardanti la sua gestione politica, per altro molto riservata ed
accentrata.
Aldo Moro fu colpito in quanto unico leader in grado di traghettare la Dc
verso questa svolta decisiva. Salvando lui si sarebbe dovuto salvare anche il
progetto politico di cui era co-protagonista, ufficialmente condiviso da circa
il 90% delle forze parlamentari.
Perché, dunque, non si tentarono tutte le possibili vie di salvezza? La
cosiddetta "fermezza", anche se invocata in buona fede, non era in fondo una
condanna a morte del sequestrato? Interrogativi angoscianti che in quei giorni
convulsi non trovarono risposte esaurienti.
Perciò, mi parve quantomeno illogico respingere la "trattativa" che avrebbe
consentito, se non altro, di scoprire le carte dei sequestratori. Se fosse stato
un bluff, come molti temevano, le Br avrebbero confermato il diffuso sospetto di
essere al servizio di un disegno più grande di loro, mirato soltanto
all'eliminazione fisica dell'on. Aldo Moro.
Purtroppo, le cose andarono per un altro verso. Moro verrà barbaramente
assassinato. Il danno fu grande per la sua famiglia e per la democrazia italiana
che, d'allora, appare sempre più contratta, fiacca, vacillante.
Concludo con un passaggio illuminante, pedagogico direi, contenuto nella
lettera a Saviano, in cui Moro conferisce un senso altissimo al sacrificio umano
"mi pare che nella vita per fare qualcosa di grande e di buono, e perciò di
duraturo, occorra saper pagare di persona, facendosi attori e veri partecipi poi
del grande dramma."
Parole dolenti nelle quali si possono intravedere i segni premonitori del suo
tragico destino.
Agostino Spataro (AprileOnLine, 15 dicembre 2008)
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