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Sabina Rossa: «Cari brigatisti, confrontiamoci ``alla
pari``»
Un ex della lotta armata intervista la figlia di Guido Rossa
Per almeno due interi decenni, gli 80 e i 90, il tema del complotto, la
cosiddetta dietrologia , ha dominato l'approccio dei media e della società
politica nei confronti della storia della lotta armata. Una forma di
occultamento piuttosto che di reale comprensione. Alle soglie del 2000 la chiave
di lettura cospirativa si è affievolita, in verità senza scomparire del tutto,
come un serpente dalle mille teste. L'attenzione maggiore si è portata invece
verso i familiari delle vittime, o meglio una parte di quella realtà. Le
testimonianze del dolore e i percorsi della sofferenza sono diventati aspetti
centrali del racconto pubblico e del discorso politico.
Ma se la dietrologia era fuorviante, il dolore, da solo, non riesce a narrare
per intero quegli anni. È possibile uno sforzo ulteriore, un passaggio alla
lucidità storica? Non "memoria condivisa", come sostengono alcuni, ma storia
aperta, libera, fatta di confronti. Storia con le sue metodologie, dove, per
esempio, la dimensione della sofferenza può trovare posto in una indagine sulle
mentalità.
Eppure una discussione del genere, qui in Italia, fino ad ora non è sembrata
nemmeno pensabile. Questa intervista a Sabina Rossa, la figlia di Guido Rossa,
il militante del Pci ucciso nel corso di un'azione realizzata nel 1979 dalla
colonna genovese delle Brigate rosse, è un tentativo di infrangere il tabù.
Intanto sgomberando il campo da malintesi e inesattezze: quando lo si vuole, un
confronto - estraneo alle logiche dell'emenda e del ravvedimento proposto in
sede penitenziaria - è possibile tra ex appartenenti alla lotta armata, non
dissociati e non pentiti, e familiari delle vittime. Si tratta di un inizio,
anche perché le regole dell'intervista hanno confini angusti. Alcune delle
risposte sollecitano obiezioni importanti che richiederebbero una discussione
più approfondita. Ci saranno altre occasioni per farlo. Per ora vale
sottolineare due fatti: Sabina Rossa è una donna che ha cancellato il rancore
dal suo orizzonte culturale e ha avuto il coraggio di incontrare le persone
condannate per l'omicidio di suo padre, senza tenere conto dei consueti
presupposti legati a comportamenti dettati dalla legislazione premiale. È una
innovazione importante. Il suo è un percorso che segue un modello laico di
elaborazione del lutto, un tragitto che apre ad una grammatica del confronto e
della analisi di quegli anni più feconda.
Tutto ciò introduce una ulteriore conseguenza: lo Stato e la società politica
non hanno più alibi e tornano ad esser direttamente chiamati in causa di fronte
alle loro responsabilità istituzionali.
Nel libro "Spingendo la notte più in là" Mario Calabresi scrive, «la
reclusione dei condannati non ci ha mai restituito nulla, non è mai stata una
consolazione […] abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di
dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo
questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è
ritenuto colpevole». Parole in netta controtendenza rispetto all'attuale
processo di "privatizzazione" della giustizia che vede lo Stato ritrarsi dietro
i familiari delle vittime.
Sempre più viene chiesto di trasformarvi in giudici dell'esecuzione penale
delle persone condannate, quasi che dall'astrazione della civiltà giuridica
moderna si stia tornando all'era primitiva della regolazione pregiuridica.
Questo percorso a ritroso non rischia di essere una trappola?
L'esigenza di ottenere giustizia non è un fatto privato ma un bene collettivo
che tende a ricostruire quell'ideale di comunità, quel sistema di regole che
vengono infrante quando è commesso un atto criminoso. Altro è l'interpretazione
che le numerose sentenze danno all'accertamento del fondamentale requisito del
"sicuro ravvedimento" del condannato (vedi art. 176 cp). Queste interpretazioni
chiamano in causa le vittime e i loro familiari poiché al condannato viene
richiesto «un fattivo instaurarsi di contatti, quale indice di manifestazione di
quelle forme di interessamento per le sorti delle persone offese con
l'intendimento di ripararne le conseguenze dannose in relazione al fatto
commesso». Ritengo che questa sia una richiesta assurda. Per i condannati è
ovvio il possibile uso strumentale finalizzato unicamente all'ottenimento del
beneficio. Per le vittime è una pesante incombenza della quale non hanno
certamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite non rimarginate. Resta il
fatto che questo percorso è ad uso discrezionale dei magistrati del Tribunale di
sorveglianza. A volte viene posto come condizione irrinunciabile, in altre non
viene affatto valutato, mettendo in essere ingiuste sperequazioni. Il caso di
Vincenzo Guagliardo (ex brigatista in carcere da 32 anni, condannato per
l'uccisione di Guido Rossa. Insieme alla moglie, Nadia Ponti, si sono visti
rifiutare la liberazione condizionale per non aver mai voluto pubblicizzare
l'incontro con Sabina Rossa, Ndr .), a mio giudizio può rappresentare un esempio
emblematico dei limiti di questa normativa, anche perché personalmente ho
rispetto di chi, con riservatezza, rimanendo in silenzio, compie un proprio
percorso di rieducazione e reinserimento. Tuttavia credo che sarebbe necessario
valutare l'opportunità di un intervento legislativo che riconduca a criteri
oggettivi la valutazione per la concessione della libertà condizionale.
Il carcere «non deve costituire un nostro risarcimento», ha detto in una
intervista aggiungendo di essere contraria all'ergastolo. Tra i familiari delle
vittime non siete in molti a pensarla in questo modo.
Quella dei familiari delle vittime è una platea molto vasta, fatta di
percorsi personali, intimi, nei quali interagiscono molteplici fattori:
psicologici, etici, culturali che possono dare quindi risposte diverse, non
sempre condivisibili, ma comunque degne del massimo rispetto. Personalmente ogni
volta che ho incontrato ex terroristi, anche chi partecipò all'uccisione di mio
padre, ho sempre cercato l'uomo che sta dietro il reato, ho sempre voluto, anche
se con difficoltà, capire la sua vicenda umana, la sua storia, il perché delle
sue scelte. Ho incontrato uomini, donne, che a tanti anni di distanza erano ben
diversi da come li immaginavo. Il tempo inesorabilmente li aveva cambiati e non
solo nel fisico, si respirava evidente il peso di scelte che avevano distrutto
anche la loro vita. Carnefici ma anche vittime di una tragedia storica, della
quale non sono stati gli unici registi e probabilmente gli unici responsabili.
Certo, la vittima è per definizione innocente, e questo ruolo non può
appartenere a un ex terrorista, ciò non significa che chi ha pagato il conto,
chi ha cercato di riabilitarsi, non abbia diritto di reinserirsi pienamente
nella società.
Non le sembra che nella società attuale si assista ad una generale deriva
vittimaria, quella che Zigmunt Bauman ha chiamato «esaltazione narcisistica
della sofferenza»?
Proprio non vedo il rischio di una deriva vittimaria e, pensando a Bauman, mi
viene più logico il collegamento con il tema della memoria storica quando, nella
Lingua materna , afferma: «Non credo che possa esistere qualche processo di
pensiero senza esperienze personali». Proprio in questo senso lo scrivere la
propria storia, da parte delle vittime, come sta avvenendo di recente, credo
significhi e rappresenti un passaggio importante, una volontà di uscire da una
dimensione privata del vissuto, del dolore, ed entrare in una dimensione
pubblica che manifesta altresì la volontà di partecipare alla trascrizione di
questa nostra storia recente.
Sfera pubblica vuole dire anche dimensione plurale del racconto. Come si
concilia questa esigenza con le polemiche sulla eccessiva esposizione mediatica
di alcuni ex appartenenti alla lotta armata (in genere quasi tutti fruitori
della legislazione premiale)? Il presidente della Repubblica Napolitano ha
addirittura chiesto che non venga loro più concessa la parola.
Il protagonismo di tanti ex terroristi si è manifestato in modo evidente, in
una logica della spettacolarizzazione dell'informazione che non ha certo
contribuito a scrivere sempre pagine di verità. Detto ciò, personalmente non mi
preoccupa il problema di un presenzialismo mediatico degli ex terroristi: semmai
mi sconcerta il comodo rimanere in silenzio di molti di essi, l'ambiguità di
giudizio su quegli anni e sulle loro responsabilità, il loro sentirsi reduci di
una guerra combattuta e persa, perpetuando convinzioni e atteggiamenti che
possono avere un ruolo pericoloso nella cultura e nei riferimenti ideologici
delle nuove generazioni.
Ma aver depoliticizzato le vicende degli anni 70, ricollocandole in una
narrazione puramente criminale, non costituisce una offesa alla memoria delle
vittime?
Questo Paese non potrà mai cambiare in meglio se non saprà affrontare con il
necessario rigore storico quanto è accaduto negli anni Settanta. Cercando di
fare verità su una storia che fu politica e non solo criminale, si può sperare
di capire cosa successe e come quegli accadimenti abbiano condizionato la vita
pubblica italiana. La storia di quegli anni è stata anche una storia di
coperture, omissioni e connivenze. Comprendere cosa accadde nella società
italiana rappresenta l'unica via per non dimenticare le vittime, tutte le
vittime. Vittime del fenomeno brigatista, dello stragismo ma anche vittime della
repressione dello Stato, che sono state spesso dimenticate con una logica della
memoria che certo non fa onore alla nostra democrazia.
Lei si è impegnata molto per l'istituzione della giornata della memoria
delle vittime del "terrorismo". Celebrazione che cade ogni 9 maggio, data della
uccisione di Moro. Che senso ha ricordare nello stesso giorno vicende del tutto
opposte? Non si rischia così di scrivere la storia a colpi di voti parlamentari?
C'è una certa difficoltà a ricordare, specie a destra, che quel tremendo e
ancora insoluto e impunito capitolo dello stragismo che ha insanguinato l'Italia
è strettamente collegato alla storia degli anni Settanta e alla degenerazione
terroristica, il che non significa che la legittimò. Il terrorismo fu barbarie
non meno dello stragismo. La data del 9 maggio è stata il risultato di un
faticoso percorso atto a fare sì che questa giornata fosse davvero un qualcosa
di condiviso da maggioranza e opposizione. Le opzioni erano diverse ma solo
attorno a questa data è stato possibile trovare un'intesa tra la quasi totalità
delle forze politiche. La giornata della memoria a ricordo di tutte le vittime
del terrorismo e delle stragi di tale matrice non poteva certo essere
istituzionalizzata con una imposizione di maggioranza.
Dopo aver criticato la decisione della Francia di annullare l'estradizione
di Marina Petrella è stata ricevuta dal presidente Sarkozy, insieme ad altri
familiari delle vittime. Perché ritenete una forma d'impunità la dottrina
Mitterrand e invece tacete di fronte all'impunità sancita per legge in favore di
collaboratori e dissociati? Solo il padre di Walter Tobagi e la vedova Montinaro
hanno preso posizione contro. Perché questa indulgenza di fronte alla ragion di
Stato?
La dottrina Mitterrand venne elaborata esaminando fascicoli processuali
relativi a latitanti italiani rifugiatisi in Francia, ma non venne mai trasposta
in alcun provvedimento avente una qualche efficacia o validità giuridica. Tale
prassi veniva giustificata con una pretesa "non conformità" della legislazione
italiana agli standard europei. Sarebbe utile ricordare che questo giudizio
proveniva da un Paese che aveva abolito la pena di morte solo nel 1981 e la cui
ultima esecuzione era avvenuta nel 1977, circa otto anni prima della
formulazione della dottrina Mitterrand e che, solo nel 2000, creò una Corte
d'assise d'appello sul modello italiano. È interessante ricordare un brano della
sentenza del 2004 della corte di Cassazione francese riguardo l'estradizione di
Battisti. In un preciso passo si chiarisce definitivamente che un giudice
francese non può ergersi a censore della giustizia italiana, ma che soprattutto
la procedura italiana è conforme agli standard europei. Sta di fatto che la vera
e propria comunità di latitanti che si è formata sulle rive della Senna ha dato
origine a una ferita che periodicamente torna a sanguinare. Personalmente vorrei
che potesse rimarginarsi, ma non è un caso che i maggiori ostacoli ad una
discussione sensata equilibrata e propositiva su questo tema li hanno posti, ad
esempio, i difensori più accesi di Battisti. È un fatto che ogni qualvolta
Scalzone ha rilasciato un'intervista si sono ridotte le possibilità ed il
consenso ad una possibile discussione di provvedimento di indulto per quegli
anni. Per quanto riguarda il carattere premiale delle leggi speciali di cui
hanno usufruito pentiti e dissociati, è un aspetto che moralmente non mi ha mai
entusiasmato anche perché non credo che abbia avuto un ruolo determinante nella
sconfitta del terrorismo. E' altresì evidente che per molti aspetti queste leggi
non hanno certo accelerato il processo di crescita democratica del nostro paese.
Ciò detto è opportuno chiedersi se è giusto tenere ancora in carcere chi è
entrato con una condanna che la cultura dell'emergenza e le leggi speciali hanno
moltiplicato.
Una soluzione per le eredità penali della lotta armata potrà esserci solo
quando si avrà verità e giustizia. È questa la risposta che viene opposta a chi
pone il problema della generazione politica più incarcerata della storia
d'Italia. Ma la giustizia penale è stata esercitata: i processi hanno scritto la
verità giudiziaria e le condanne, sovraccaricate dalle aggravanti delle leggi
d'emergenza, sono state lungamente espiate nelle carceri speciali. Di quale
"verità" si sta allora parlando? Quella storica non dovrebbe appartenere solo
alla libera ricerca slegata da qualsiasi condizionamento?
Probabilmente le verità storiche potranno essere scritte quando non ci
saranno più condizionamenti giuridici, ma è giusto chiedersi se per chiudere un
periodo storico tormentato e difficile sia meglio rimuovere o tenere aperte le
ferite. Poi arriva sempre una generazione che chiede spiegazioni su quello che è
stato. Credo quindi che vada posto un problema di assunzione di responsabilità
che non è mai appartenuta a molti degli ex terroristi, per non parlare dei
latitanti. È vero anche che forse questa mancata assunzione di responsabilità è
imputabile a uomini che poi sono divenuti in parte la nuova classe dirigente
italiana. Nella storia del nostro Paese permane la difficoltà di fare i conti
con il proprio passato.
Nel libro scritto insieme a Giovanni Fasanella, "Guido Rossa, mio padre",
rivela che suo padre faceva parte di una cellula riservata messa in piedi dal
Pci nelle fabbriche per sorvegliare e scovare i militanti e i fiancheggiatori
delle Br. Questa confusione di ruoli che spinse un partito a confondere la lotta
politica con l'attività investigativa, sovrapponendosi agli organi preposti
dello Stato, non fu un tragico errore? Agendo in questo modo, Pci e sindacato
non hanno snaturato il loro ruolo?
Chi fu interprete determinante di scelte terroristiche, chi subì "quell'abbaglio
rivoluzionario" e oggi si vuole proporre con onestà intellettuale, non può
continuare a manipolare ideologicamente la realtà. Il vero tragico errore fu il
terrorismo, non solo perché si lasciò dietro una scia interminabile di sangue
innocente ma anche, e storicamente questa è una responsabilità inalienabile,
perché è stato un fattore di forte contrasto al processo di sviluppo democratico
e sociale del nostro Paese. E di questo, ancora oggi, ne soffriamo le
conseguenze. Un approfondimento credibile non può prescindere dall'individuare
la complessità e la pericolosità di quegli anni e quanto fossero necessarie e
vitali le strutture organizzative di vigilanza e di intelligence che il partito
comunista si era dato a difesa di quell'Italia che seppe rendersi interprete di
grandi pagine di lotta e partecipazione democratica. Operai, studenti, uomini e
donne, semplici cittadini interpreti di quell'Italia democratica che seppe
sconfiggere il pericolo golpista, lo stragismo e il terrorismo. Quell'Italia non
rispose con la violenza ma vinse con la forza della democrazia e con il
contributo determinante del sindacato e dell'allora partito comunista. Non a
caso mio padre verrà a conoscenza di informazioni importantissime sui piani
eversivi legati al golpe Borghese all'interno dell'Italsider Oscar Senigallia,
come probabilmente era riuscito a individuare gran parte della catena di
produzione della propaganda brigatista. D'altra parte è nella lettura di queste
sue scoperte che si leggono i perché del suo assassinio. Nella ricostruzione del
suo omicidio si delinea chiaramente che non fu né un errore, né una scelta
individuale di Dura. Fu l'esecuzione di un ordine diverso da quello che era
stato dato agli altri membri della colonna genovese. Un ordine dettato da un
altro livello dell'organizzazione terroristica.
Cosa la spinge e dove ha trovato la forza per incontrare i brigatisti di
ieri?
Certamente ciò che mi ha mosso è stato da un lato la ricerca di verità, ma
dall'altro il recupero di un confronto mancato a mio padre, quel confronto con
l'avversario che fa parte di quelle "leggi non scritte", per le quali esiste
sempre un rapporto diretto tra le persone protagoniste di un conflitto, ma nel
momento in cui il nemico diviene simbolo, cessa del tutto di essere uomo per cui
non è più avvertita l'esigenza del confronto. Un confronto negato, perché si è
solo un bersaglio, neanche una vittima, perché non le è riconosciuto tale
status. Una vittima, infatti, è per sua natura buona, gli obiettivi negli
attentati compiuti dai terroristi venivano scelti perché percepiti come cattivi,
quindi, per definizione destinati a perdere e scomparire. Quel confronto mancato
che lo stesso Guagliardo ha così stigmatizzato: «Vedi, se tuo padre fosse ancora
vivo, se lo avessimo colpito solo alle gambe, io avrei con lui un rapporto alla
pari…».
Paolo Persichetti (Liberazione, venerdì, 05 dicembre 2008)
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