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Per fortuna Paolo VI non era di sinistra ed era meglio di
quello in tv
Sceneggiatori, malignità vaticane e interpretazione del Concilio.
Come nasce l’immagine politica di Papa Montini
A Paolo VI piacevano i film western, se li guardava volentieri la sera prima
di andare a letto e una volta, nel settembre del 1968, li citò persino in una
celebre udienza, per cercare di spiegare prima di tutto a se stesso – era il suo
tipico modo di procedere, da intellettuale di formazione giuridica, ma la
maggior parte degli osservatori l’ha sempre scambiato per un segnale di dubbio,
“il Papa del dubbio” dicevano – l’ansia di violenza che vedeva crescere nei
giovani. Papa Benedetto va a letto presto, non è un mistero che alla televisione
preferisca i libri.
Che la fiction su Giovanni Battista Montini, “Paolo VI – Un Papa nella
tempesta”, prodotta dalla Lux-Vide di Matilde (ed Ettore) Bernabei per Raiuno e
andata in onda domenica e lunedì non lo abbia entusiasmato, quando gliela hanno
mostrata in anteprima, è un’indiscrezione tutto sommato plausibile. Anche se
forse è solo una malignità “intra moenia” vaticane che l’abbia disturbato
l’interpretazione del Concilio, o l’eccessiva sottolineatura della politica
italiana – con Montini a benedire tutto il cammino della Dc come la storia di
una lunga e provvidenziale apertura a sinistra. Probabilmente il professor
Ratzinger si sarà semplicemente un po’ annoiato, come accade spesso di fronte
alle fiction biografico-religiose della tv italiana (critica bipartisan: vale
per quelle targate Bernabei-Rai come per quelle in onda sulle reti Mediaset).
Anche se, stando alle cronache, Benedetto XVI si commosse vedendo l’anteprima
del “Giovanni Paolo II” della Rai con Jon Voight. Una fiction è solo una
fiction, contiene inevitabilmente quel molto di agiografico e quel troppo di
zucchero concentrato (tre ore, lo standard delle miniserie all’italiana).
Manca per statuto l’approfondimento, ogni rischio di argomento
contraddittorio è bandito. E’ solo una fiction, che male c’è? E questa diretta
da Fabrizio Costa è stata apprezzata dal pubblico al pari di tutte le altre. Al
limite, si potrebbe girare agli interessati, ai produttori, la domanda generale
sul perché le fiction biografiche all’italiana debbano essere tutte identiche,
che parlino di Montini o di Fausto Coppi. E alla Lux-Vide si potrebbe chiedere
se davvero quel loro modo di fare televisione sia anche una forma convincente di
“apostolato dei media”, come si pretende. Ma Ettore Bernabei la sa lunghissima e
certamente ha ragione lui. Che poi un Papa teologo, la sera, preferisca un tomo
di teologia in fondo importa poco per la chiesa mediatica italiana.
Una fiction è solo una fiction, non un approfondimento sulla storia della
chiesa, della sua cultura novecentesca, o del cattolicesimo italiano. Eppure, da
quel che si dice o non si dice, da ciò che si mostra o si sorvola emergono dei
tic, degli stereotipi, utili per capire anche le cose più serie (più serie di
una fiction) che stanno sullo sfondo o nella testa degli sceneggiatori. Si può
intuire, ad esempio, qual è l’immagine che a Paolo VI è stata cucita addosso,
così forte e bene che a tutt’oggi gli sceneggiatori non se la sono sentita di
derogare, come hanno essi stessi dichiarato: “Papa Montini non ha una forte
immagine nazionalpopolare, non ha lasciato dietro di sé un marchio indelebile.
In questa fiction abbiamo cercato di raccontare quanto sia difficile fare il
Papa e quanto una responsabilità possa portare un uomo a sfidare i propri
limiti”.
Un Papa in flashback. Racchiudere la storia di Paolo VI in due lunghi
flashback suscitati dal caso Moro è una scelta un po’ azzardata persino per una
fiction. La prima puntata si apre sulle immagini di via Fani, una lunga
sequenza. Una scelta anche pertinente. Il 1978 non è stato solo l’anno in cui
Montini è morto, il 6 agosto, lontano dal clamore dei media, un lento consumarsi
più che una lunga agonia nella isolata tranquillità di Castel Gandolfo. Quasi
abbandonato dal mondo, forse dalla stessa chiesa straziata da quindici anni
terribili, dal post Concilio e non solo, e che da tempo si interrogava sul
futuro.
E’ vero che, simbolicamente, per il mondo italiano Paolo VI era già morto tre
mesi prima, quando il 13 maggio in San Giovanni in Laterano rivolgendosi al “Dio
della vita e della morte”, aveva gridato con un filo di voce: “Tu non hai
esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo
buono, mite, saggio, innocente e amico”. Ma in quel maggio del 1978, l’anno dei
tre Papi, in cui a Roma iniziavano a finire la Dc e la Guerra fredda con
l’arrivo del Papa polacco, Paolo VI aveva cominciato a morire, d’amarezza, anche
per un altro colpo. L’Italia aveva votato la legge che legalizzava l’aborto; la
Dc aveva optato per un compromesso, forse inevitabile dal punto di vista
politico, certo irrilevante per difendere una cultura, una visione, una
concezione della vita che avevano già iniziato a franare da un pezzo. La
legalizzazione dell’aborto finiva insomma per sancire che sulla inviolabilità
della vita umana le cose non stavano più come erano state per millenni, i due
millenni cristiani, e che la libertà di decidere, la “choice” della donna era
diventata un diritto che, passati altri trent’anni, oggi qualcuno vorrebbe
iscrivere tra i diritti umani inviolabili dell’Onu.
Paolo VI quest’esito rovinoso non solo per la chiesa, ma per l’umanità stessa
l’aveva previsto e dolorosamente annunciato dieci anni prima, con la “Humanae
Vitae”. Ma questo legame profondo, tracciato con lucidità a proposito del non
poter “procedere a proprio arbitrio” quando si tratta del compito di dare (o
togliere) la vita è uno degli aspetti del pensiero e del magistero di Paolo VI
ancora oggi più negati, più censurati, non solo da parte della cultura laica, ma
anche di buona parte dei cattolici. L’“Humanae Vitae” fu la sua ultima enciclica
non per caso: Papa Montini aveva intuito che per preservare il “piccolo gregge”
che gli era stato affidato ogni nuova parola autoritaria sarebbe stata dannosa.
E fu proprio lui a usare, nel 1972, in un’omelia drammatica e inascoltata,
l’immagine della tempesta: “Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una
giornata di sole per la storia della chiesa. E’ venuta invece una giornata di
nuvole, di tempesta, di buio”.
Altro grande stereotipo su Paolo VI è quello di una figura schiacciata “tra
Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II”, come ha puntualmente detto Fabrizio Gifuni,
l’attore che lo interpreta nella fiction tv, dunque “silenzioso” e poco
rilevante nella difesa della fede nel secolo breve al confronto del “Papa del
Concilio” e di quello dell’“Aprite le porte a Cristo”. O addirittura “traditore”
del Concilio. Invece, in quegli anni drammatici, Montini portò a termine il
Vaticano II salvandolo alternativamente da secche procedurali e derive
teologiche. La celebre “Nota explicativa praevia” che d’autorità fece anteporre
alla Costituzione dogmatica “Lumen Gentium” sulla chiesa per evitare
interpretazioni equivoche, servì a confermare la superiorità dell’autorità
pontificia nei confronti del Collegio episcopale. La “Nota” fu interpretata dai
progressisti come una sorta di “golpe” conservatore, ma forse senza di essa il
Concilio si sarebbe trasformato in una frana teologica senza confini. Lo stesso
si può dire per il “Credo del Popolo di Dio” che proclamò con “Motu Proprio” nel
1968 col suggerimento e l’aiuto del suo grande amico Jacques Maritain, ormai
ravveduto “Contadino della Garonna”, una delle più lucide e sintetiche
riproposizioni della tradizione apostolica, che fu largamente ignorato dentro e
fuori la chiesa.
“Come si può dire ch’io sono sempre stato favorevole alla cosiddetta apertura
a sinistra, quando è vero il contrario?”. Basterebbe questa frase scritta da
cardinale di Milano nel 1959 a un amico, che apre il libro di Eliana Versace
“Montini e l’apertura a sinistra - Il falso mito del vescovo progressista” per
smentire un altro stereotipo e per restituire alla figura di Montini la sua
complessità anche sul terreno dell’interesse che sempre ebbe per la vita
politica italiana, da vero bresciano figlio di un deputato del Partito popolare.
Dagli anni da “sostituto” in segreteria di stato con Pio XII e di assistente
della Fuci, al costituirsi di quello che gli storici hanno chiamato il “partito
montiniano” tra i giovani quadri dell’antifascismo cattolico, l’attitudine
“politica” di Montini è stata indubbiamente importante per la storia del
cattolicesimo politico italiano. Il modello “maritainiano” dell’impegno nella
vita pubblica, la crucialità della partecipazione alla Carta costituzionale lo
dimostrano. Così come il suo pontificato e la sua ambrosianissima “Populorum
Progressio” non possono essere compresi senza gli anni da “arcivescovo degli
operai” nella città del boom economico e dell’immigrazione. Da lì a diventare il
vero capo del centrosinistra, sono cose che capitano soltanto nelle fiction.
Maurizio Crippa (Il Foglio, 2 dicembre 2008)
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