| Home | |
vuoto a perdere |
|
Sono passati 40 anni ma ancora c’è chi difende il ’68 attribuendogli il merito di aver reso possibili molte riforme sociali di cui godiamo tutt’ora, e chi lo attacca indicandolo come causa principale dei “disastri” che hanno attraversato l’Italia negli anni successivi e che in parte ci portiamo sino ad oggi. Quale è l’eredità positiva che il ’68 ci ha lasciato? Franco Piperno: La critica alla modernità. Il ’68 proprio perché era un movimento di giovani intellettuali ha attaccato lucidamente il nucleo della sofferenza moderna che è l’astrazione della modernità. L’idea dei diritti dell’uomo e tutto il resto che ha messo su un imperialismo quanto mai chiuso e ideologico. Criticare i diritti dell’uomo tra le tribù indiane sopravvissute è totalmente ridicolo in quanto caratterizzate da una concezione della vita e dei legami sociali completamente diversi, poco basata sull’individuo e molto sul collettivo. Quello che ha elaborato l’Europa nel ‘700 è un’idea di divisione dei poteri di rappresentanza legata irriducibilmente alla stessa Europa. Faccio un esempio. La distinzione tra potere giudiziario e potere esecutivo è semplicemente che in Europa i nobili vengono sistemati a fare i giudici e invece il Re acquista questa capacità esecutiva che prima non c’era. Quindi si arriva alla rappresentanza che sono in realtà i borghesi del ‘700, il Re che è la tradizione della mano pubblica e poi i giudici che sono i nobili che sono privati degli altri poteri e gli si dà il potere di giudizio. Pensare che invece il risultato della scienza politica è valida per l’Oceania come per la Lapponia è talmente ridicolo e provinciale che più non si può. Stiamo assistendo alle rovine di questo tentativo perché quello che sta accadendo con la globalizzazione è giusto la messa in evidenza della sua incapacità di funzionare. E ancora ne vedremo delle belle. Ma il ’68 ha fatto questo 40 anni fa, è talmente evidente che quando riprenderà una critica pratica alla nostra società saranno i magazzini del 68 a fornire gli strumenti e i sentimenti per affrontare questa guerra.
Il “68” ha portato con se elementi negativi che hanno prodotto effetti visibili anche nella nostra società? F.P.: Certo. Molti, come succede nei momenti di grande cambiamento. Intanto l’elemento della violenza che ferisce non solo chi la patisce ma anche chi la pratica. Penso alle ferite interne, ovviamente, ai mutamenti di carattere e della sofferenza che è implicita nella violenza sociale, non in quella criminale che ha altre radici ed è sempre limitata nel tempo. Qui si è trattato di un fenomeno di massa. Poi, come accade nelle sconfitte, è che la sconfitta non è semplicemente il fatto che tu “non sei riuscito” ma anche che interiorizzi questo e passi dall’altra parte! Ci sono pentiti di vario genere che occupano posti rilevanti. Fortunatamente in Italia, come in Giappone in Germania non sono tanti. In Francia ce ne sono certamente di più. Ma quello è di nuovo un aspetto della sofferenza dal punto di vista dell’anima sociale per cui quelli che hanno tentato di migliorare le cose o di farne una radicale trasformazione, oggi inneggiano a Di Pietro e alla legge all’ordine. Quello è un dolore, non è solo il fatto che uno si sia pentito. E’ semplicemente che Lanfranco Pace è stato con Berlusconi e in questo stare con Berlusconi ci sentiamo tutti coinvolti, come accade quando un tuo amico commette una sorta di tradimento delle sue idee, idee che una volta vi avevano resi amici. Poi si potrebbe continuare col fatto che la reazione al ’68, tanto in Italia quanto all’estero, ha comportato un peggioramento delle libertà, ma questo è tipico di ogni rivoluzione sconfitta. Il ’68 ha provocato tanto male ma nessuna trasformazione avviene usando i guanti.
La fabbrica è stato uno dei terreni di scontro che studenti e militanti di Potere Operaio hanno utilizzato per battersi al fianco degli operai nelle lotte per il salario, per i diritti sul lavoro, ecc. Come è cambiata la fabbrica dal ’68 ad oggi? F.P.: Di fatto la fabbrica si è computerizzata ed è venuto meno l’elemento di fatica fisica del corpo che era un fondamento importante per la presa di coscienza degli operai. La fabbrica si è come denaturata non solo nel senso quantitativo ma soprattutto perché la nuova tecnologia fa si che l’intervento dell’operaio (ma non so se è più possibile chiamarlo così. Forse dovremmo dire dell’impiegato…) sia del tutto ausiliario rispetto alle macchine. Questo comporta anche la scomparsa dell’innovazione operaia che era, in fondo, la base dell’orgoglio collettivo degli operai. Nella vecchia fabbrica l’operaio cercava in tutti i modi di risparmiare gesti per diminuire la fatica e questo richiedeva una capacità oltre cha manuale anche intellettuale. Tutto funzionava nel senso che gli operai cercavano trucchi per risparmiare lavoro, i capireparto annotavano questi trucchi. Dopo di che il nuovo protocollo dei gesti operai nella fabbrica fordista aveva interiorizzato questa scoperta operaia. Quella che Arquati con una bella espressione chiama “l’innovazione operaia”. Questo non è più possibile perché se pensiamo ad una fabbrica che costruisce laser il rapporto dell’esperienza dell’operaio è totalmente insignificante perché, contrariamente alla vecchia concezione della fabbrica, un operaio non sa neanche cosa è un laser e non riesce a dominare intellettualmente l’oggetto che costruisce. E questo in realtà va di pari passo con il ridimensionamento del bisogno di lavoro e quindi il bisogno di lavoro diventerà impellente per coloro che vogliono arricchirsi mentre per gli altri, poiché la società chiede meno lavoro, può essere un’occasione di estrema emarginazione o di un rapporto diverso col reddito. La società oggi è abbastanza ricca da garantire il necessario. Le crisi che noi abbiamo sono crisi di eccedenza che dipendono anche dai nostri consumi, che aumentano sempre di più e necessitano di migliori stipendi, comportano un riproporre senza fine lo stesso modello con le macchine che ci intasano. L’altra possibilità, naturalmente, è un altro modello di consumo, un altro rapporto con la merce che non è un concetto di austerità ma una cosa di qualità diversa. E’ più importante preservare la struttura delle nostre città dell’interno, al sud, che sono realizzate con l’idea della “città con gli orti” come Gerusalemme. C’è una vecchia idea mediterranea dove l’auto consumo è un elemento importante e non marginale o addirittura folkloristico. Mangiare un pomodoro raccolto dal proprio orto, per chiunque l’abbia fatto, non ha alcun rapporto col pomodoro che compriamo al supermercato. L’immagine vera di questo è Napoli, considerata città povera per cui la Comunità Europea manda miliardi di euro che servono per costruire le reti di consenso, a dare una specie di salario sociale a coloro che stanno col Governatore o con l’anti-Governatore. La conseguenza di questa situazione è che i rifiuti ricoprono gli esseri viventi. La quantità di consumi è così sproporzionata che la povertà di Napoli appare un problema fittizio ed il problema vero è un cattivo consumo collettivo. Come qualcosa che attraversa le persone dove ci sono alcuni innocenti e altri colpevoli. Siamo in una situazione nella quale dobbiamo cambiare abitudini e questo cambiamento di abitudini ha un carattere sovversivo perché ha la possibilità di sottrarsi al mercato. Non abbiamo bisogno di tutte queste merci, il bisogno è costruito artificialmente e per questo dà luogo a delle cose abissalmente contraddittorie. Attraverso i canali umanitari diamo dei soldi all’Africa per aiutare le popolazioni a non morire di fame. Poi mettiamo dei dazi sui prodotti agricoli che provengono dall’Africa per proteggere i nostri pseudo-agricoltori. Ma il modo più giusto di aiutarli non sarebbe vendere i loro prodotti ad un prezzo concorrenziale che loro ti offrono? Ma questo vorrebbe dire modificare gli equilibri politici in Francia dove gli agricoltori hanno un peso importante nella società. Siamo di fronte ad una gigantesca irrazionalità. Quello che crea sofferenza è l’astrazione che viene dall’avere definito alcuni concetti vuoti che si autonomizzano. Forse una rappresentazione più efficace ancora rispetto a quella di Napoli è data dal traffico. L’automobile all’inizio è stata un elemento di libertà del corpo per lo spostamento. Poco tempo fa ho letto una statistica del comune di Roma che dice che nel 1914, quando le auto era molto poche, si percorrevano da 15 a 18 Km in un’ora. Attualmente l’auto percorre in media circa 3 Km l’ora e se consideriamo che a piedi, con passo normale, se ne percorrono più di 4 è evidente che il traffico è diventato una trappola. Però è difficilissimo, paradossalmente non tanto per il ricco che forse è anche più disponibile, dire al povero che deve andare a piedi perché la prende come una regressione sociale. E questo è un dato oggettivo, generalizzato, lo si ritrova anche nei piccoli paesini dai caratteri ancora medievali completamente intasati da macchine.
Per concludere, una domanda sulla politica attuale. Che ruolo può avere oggi la sinistra e cosa comporterà il fatto che la sinistra cosiddetta “antagonista” non abbia più rappresentanza istituzionale? F.P.: Solo del bene. Intanto è evidente che c’è una crisi non nella sinistra radicale ma nella sinistra. Basta guardarli: dai Socialisti a Rifondazione sono dei rappresentanti in cerca di chi rappresentare. Hanno sempre fatto il mestiere di “rappresentanti”. E’ tutta una cosa storta fin dall’inizio. Mentre viceversa ci sono dei militanti che si sentono come orfani. Il punto è che bisogna pensare in una condizione di post-sinistra, non è riproponibile il modello statalista e soprattutto non è riproponibile l’idea della sinistra che i problemi si risolvono aumentando la ricchezza. I problemi di ridistribuzione della ricchezza non sono legati alla quantità di ricchezza ma alle relazioni tra le persone. Noi potremmo star meglio con una produzione persino diminuita rispetto a quella attuale. E’ tutta una cosa diversa, in cui si tratta di ricostruire una cultura ed una sensibilità. Probabilmente da questo punto di vista il volontariato, anche quello cattolico, è molto più vicino ad un altro modo non statalista ma comunitario di porre il problema ad un superamento della dimensione della nazione che è stato l’altro aspetto centralistico della nostra storia. Noi poi l’abbiamo preso pari pari dai francesi senza ereditare però da loro il rigore nella concezione dell’amministrazione pubblica. Il mio amico Deleuse un giorno mi disse che il guaio italiano è che l’Italia è stata concepita come un intreccio tra la capacità organizzativa piemontese e la fantasia napoletana. Poi però è andata a finire che la capacità organizzativa ce l’hanno messa i napoletani e la fantasia i piemontesi. Puoi pensare che disastro…
|