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Data: 16/03/2009
Intervista a: Manolo Morlacchi
Ho incrociato Manolo Morlacchi lo
scorso anno, quando seppi del suo libro “La
fuga in avanti” dall’amico Giuliano Boraso che lo definì “progetto
non allineato”.
La definizione mi incuriosì molto e decisi di leggere subito il libro nel quale
Manolo ha voluto raccontare, a distanza di anni, la storia dei Morlacchi,
famiglia proletaria che ha attraversato, per così dire, tutte le fasi del
movimento operaio dello scorso secolo.
Un punto di vista che mi incuriosiva molto, quello di Manolo.
Non protagonista ma nemmeno estraneo alle vicende degli anni settanta, perché
bambino in grado già di comprendere e di applicare alle cose il filtro del
giudizio.
Con una grande capacità letteraria, alternando il racconto al documento, ha
saputo raccontare le vicende dei genitori e personali senza mai cadere nella
retorica o nella giustificazione fine a se stessa ma sapendo rivendicare le
scelte di vita e politiche di Pierino Morlacchi
ed Heidi Peusch e il loro ruolo di
genitori che si sono sempre preoccupati di crescere i figli con affetto nel
rispetto delle proprie scelte di vita. Il tutto nel pieno rispetto delle scelte
degli altri e dei dolori provocati.
Mi è sembrato un interessante punto di vista dal quale partire per analizzare le
contraddizioni di una generazione, lasciando da parte le mistificazioni e le
dietrologie ma mettendo in primo piano il percorso dei singoli dentro il
contesto storico-sociale-politico di un’epoca con la quale non siamo ancora in
grado, come nazione, di chiudere i conti.
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Come valuti, a 30 anni di distanza,
l’esperienza di tuo padre?
Non posso che guardare con enorme ammirazione alle scelte compiute da mio padre,
da mia madre e da centinaia di altri compagni più di trent’anni fa. Al di là
delle questioni politiche, mi piace sempre ricordare l’enorme esempio di umanità
che i miei genitori sono stati capaci di trasmettere a me e tanti altri. Un
esempio che ho cercato di far trasparire dalle pagine de “La fuga in avanti”,
utilizzando prima di tutto episodi legati alla quotidianità, ai rapporti
famigliari, alla dignità umana.
Parliamo del PCI dell’inizio degli anni ’70.
Perché per molti giovani rappresentò una delusione?
La delusione rispetto al PCI nasce e si sviluppa ben prima degli anni ’70. Già
alla fine degli anni ’50 iniziano a maturare posizioni critiche verso il
partito. Critiche che nascevano da sinistra e che scaturivano del percorso
riformista imboccato dal PCI prima ancora che finisse la seconda guerra
mondiale. Chi contestava il PCI agli inizi degli anni ‘60 lo faceva riferendosi
alla Cina di Mao, al Vietnam, a Cuba, all’Algeria e alle lotte di liberazione
anticolonialiste. Guardava, insomma, a tutte le esperienze rivoluzionarie che
ancora puntavano al superamento del capitalismo e non al suo miglioramento ed
alla convivenza con esso. Il PCI, citando a memoria le stesse BR de “L’ape e il
comunista”, aveva ormai imboccato la strada che lo trasformerà da “partito della
classe operaia dentro lo stato, a partito dello stato dentro la classe operaia”.
Da una di queste fratture nacque nel quartiere Giambellino di Milano il gruppo
“Luglio ‘60”. Fu in questo gruppo che condussero la loro militanza alcuni
compagni che in seguito aderirono alle Brigate Rosse, tra essi mio padre. E’
ormai notorio che una componente significativa delle prime BR proveniva proprio
dalle fila del partito comunista italiano.
Credo si possa affermare in modo molto chiaro che la principale ragione della
delusione dei giovani verso il PCI fu la sua scelta riformista e l’abbandono di
una strategia rivoluzionaria.
In occasione del funerale di tuo padre
nell’orazione funebre si legge, a proposito dei diversi percorsi dei militanti
rivoluzionari, “alcuni hanno barattato la loro dignità con le briciole che la
borghesia lascia cadere a terra dalla tavola sempre più imbandita dello
sfruttamento, della violenza e della guerra”. Il baratto è stato più un segno di
debolezza personale, di forza dell’avversario o di sconfitta definitiva? E,
soprattutto, quanto hanno inciso quei baratti nella lettura di quegli anni?
Il “baratto” a cui si riferisce l’orazione funebre, se vogliamo, è ancora più
drastico e radicale. Non si collega semplicemente al tradimento o alla
dissociazione di coloro che aderirono all’esperienza della lotta armata. E’
all’intera classe operaia che si rivolge l’accusa. Non vi è mai stata nella
tradizione a cui mi riferisco e negli insegnamenti ricevuti alcuni inclinazione
ecumenica verso “la classe”. Citando Marx, “il proletariato è rivoluzionario o
non è nulla”. Certo di mezzo ci sono anche i percorsi dei militanti
rivoluzionari. E forse il loro baratto è anche frutto di debolezza, paura,
sconfitta personale e collettiva. Ma non serve a comprendere e descrivere quegli
anni.
Diversa cosa sono le apologie della sconfitta che hanno caratterizzato i lavori
di ricostruzione compiuti dagli ex militanti, poi pentiti o dissociati. In quel
caso ci troviamo nel campo di coloro che per ricostruirsi una verginità sociale
hanno dovuto, per l’appunto, barattare la loro dignità raccontando una storia
dettata da altri. Certo, questo tipo di ricostruzione ha trovato una vasta
platea anche grazie a tutto il supporto massmediatico garantito. Ma non credo
che, nel lungo periodo, questi lavori possano avere alcuna funzione, né
politica, né storica, né sociale.
Chiudi il libro con un episodio emblematico
che, sebbene non sarà stato unico, nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere
nero su bianco. Nel 2003, al funerale di tua madre, su un muro trovaste scritto:
“La rivoluzione è un fiore che non muore. Ciao Heidi” e negli occhi dei compagni
presenti ti è sembrato di aver scorto una scintilla più che mai viva, un sogno
rivoluzionario ancora non sfumato per il quale è necessario ancora lottare. Cosa
vuol dire, secondo te, oggi essere rivoluzionari e quali sono gli strumenti per
la lotta?
Essere rivoluzionari, oggi come ieri, significa una sola e semplice cosa:
combattere per il superamento del capitalismo. E’ il sistema che si basa sulla
proprietà privata dei mezzi di produzione a generare le ingiustizie che ogni
giorno urlano da ogni angolo del mondo. E oggi è giusto e necessario essere al
fianco di coloro che ad ogni latitudine resistono agli attacchi
dell’imperialismo.
All’inizio della loro storia, le Br tenevano
addirittura comizi pubblici e tu racconti di quando Curcio parlava in una piazza
di Milano presidiata da compagni amati. La polizia era presente, ma per evitare
che si generassero situazioni pericolose, restava a debita distanza. Non pensi
che questa conoscenza possa aver permesso agli investigatori di continuare a
“tracciare” il percorso dell’Organizzazione senza, tuttavia, dover per forza
intervenire in maniera preventiva?
Certo, può succedere che talvolta le forze dell’ordine utilizzino questa
strategia. Trovato un filo scoperto cercano di risalire fino al bandolo della
matassa. Nel caso dell’esempio da te citato direi che questo rischio non venne
corso anche perché ci trovavamo in una fase del tutto embrionale della lotta
armata. I primi militanti a cadere furono il prodotto di uno dei rarissimi
infiltrati, Pisetta. Fu lui, come noto, che contribuì peraltro ad accelerare la
scelta della definitiva clandestinità e la ristrutturazione dell’organizzazione
in fronti e colonne.
Un luogo comune relativo alla storia delle BR,
riguarda le diverse generazioni di brigatisti che sono stati ai vertici
dell'Organizzazione. In genere si sottolinea come all'arresto di Curcio e
Franceschini si sia assistito ad una svolta militaristica voluta da Moretti.
Questo per sottintendere la nascita di una nuova logica, poco conforme alla
precedente storia delle BR. Cosa ne pensi?
Personalmente è una tesi a cui non credo. Le svolte all’interno delle BR ci
furono, ma furono il prodotto di una discussione politica corale che includeva
anche il punto di vista dei militanti che si trovavano in prigione. Anzi, direi
che i militanti imprigionati furono sempre assai ascoltati da chi continuava a
combattere fuori.
La tesi delle BR militariste mira a separare le “pecore bianche da quelle nere”,
per ragioni che sono tutte politiche. Le pecore bianche sono le prime BR che
usavano la violenza come moderni Robin Hood. Le pecore nere sono le seconde BR;
quelle violente, assassine, quelle di Moro per intenderci. E’ un tipo di lettura
a cui mi sottraggo e a cui non ho mai dato alcun credito.
Vi fu senza dubbio un passaggio strategico che produsse un nuovo livello di
scontro. Ma tale passaggio fu il prodotto non delle soggettività che si
trovavano in quel momento in una posizione di comando, bensì di un percorso
politico condiviso da tutta l’organizzazione.
Nel libro racconti il primo arresto di tuo
padre in Svizzera, quando fu costruita una montatura tra Carabinieri e SID
dovuta al fatto che sarebbe stato più difficile per l’Italia chiedere l’estradazione
per un “prigioniero politico”. E’ possibile, secondo te, che le leggi siano
state letteralmente calpestate in altre occasioni? Perché i rivoluzionari
facevano molta paura o perché non si avevano strumenti efficaci per una
soppressione del fenomeno all’interno delle leggi?
Non vorrei apparire dogmatico e quindi utilizzo una contro domanda a proposito
di un fatto recente. E’ possibile parlare di leggi dopo una sentenza vergognosa
come quella emessa dal tribunale di Genova a proposito dei fatti della scuola
Diaz e della caserma Bolzaneto? E’ del tutto evidente che il concetto di legge è
solo una delle tanti variabili attraverso le quali si esercita il potere della
borghesia. Personalmente non trovo nulla di strano, né mi inalbero se non per
ragioni di prassi politica, di fronte a sentenze come quella su Genova 2001,
come quella sull’assassinio di Carlo Giuliani, sulla reintroduzione mascherata
della tortura e della pena di morte nelle nostre carceri avvenuta alla fine
degli anni ’70 ecc.
Ogni volta che il potere avverte una minaccia provenire da un movimento, da una
contraddizione, da una tensione sociale o calpesta le leggi esistenti o ne crea
di nuove a suo uso e consumo.
In questo senso è evidente che i rivoluzionari degli anni ’70 facevano
moltissima paura.
Il fatto di essere il figlio di uno dei
fondatori delle Br, ti ha mai creato problemi personali nello studio, sul lavoro
o nella vita privata?
No. Al contrario è sempre stato un vantaggio. Ho constatato personalmente che la
storia della mia famiglia mi ha quasi sempre garantito un rispetto di fondo
dalle persone, a prescindere dalle loro convinzioni politiche.
Se i parenti delle vittime di quegli anni
reclamano, da un lato, il rispetto del proprio dolore e dall’altro il silenzio
degli ex che non dovrebbero ergersi a maestri pubblicando libri, rilasciando
interviste quale pensi debba essere la richiesta, oggi, degli ex brigatisti e
dei loro parenti?
Nessuna. Non si capisce a quale titolo e su quale argomento possa essere estesa
una richiesta e per quale ragione le istituzioni dovrebbero mostrarsi
disponibili. Sono peraltro proprio gli ex brigatisti irriducibili, fuori e
dentro il carcere, a non richiedere alcunché allo Stato.
Perché l’Italia è l’unico Paese nel quale a
distanza di 40 anni ancora non si riusciti a voltare pagina? Quale è la tua
soluzione per arrivare ad una verità storica che permetta a tutti di assumersi
le proprie responsabilità e liberare i troppi fantasmi del passato?
Analizzare liberamente e fino in fondo quanto accaduto negli anni ’70 e ancora
di più nei decenni precedenti significherebbe mettere in discussione l’intero
impianto su cui si regge la nostra repubblica. Ogni lettura diventa così
inevitabilmente una lettura interessata che ha ben poche affinità con la “verità
storica”. Sollevare misteri e analisi dietrologiche permette di fomentare il
dibattito politico e di trascinarlo sul terreno della pura speculazione. Il caso
Moro è emblematico in tal senso.
A proposito del caso Moro. Nel '78 tuo padre si
trovava in una parentesi di libertà ed era rientrato al Giambellino. Nel libro
racconti che aveva trovato una realtà diversa (altro termine). Come valutò il 16
marzo il notevole salto di qualità dell'Organizzazione? Azzardato? Necessario?
Inevitabile?
Poco prima della sua morte parlai con mio padre del 16 marzo 1978 e di tutto
quello che seguì a quella data. Mi ribadì con forza che sia lui, sia altri
compagni di Milano, erano contrari a quell’iniziativa e, di riflesso, anche alla
scelta finale dell’esecuzione. Riteneva che la dirompenza di Moro vivo sarebbe
senza dubbio stata maggiore del Moro morto. Mio padre pensava che, dopo la prima
ondata rivoluzionaria dagli inizi degli anni ’60 fino alla metà dei ‘70, sarebbe
stato necessario tirare un respiro ed attendere l’evoluzione delle
contraddizioni aperte in quegli anni di lotta. E questo prima che la repressione
iniziasse a fare la differenza. In sintesi, pensava che la cosiddetta “ritirata
strategica” lanciata in seguito come parola d’ordine dalle BR avrebbe sortito
gli effetti attesi se fosse stata proposta qualche anno prima.
Quali erano le aspettative dei militanti in
libertà riguardo "l'Operazione Fritz"?
Posso supporre che le aspettative fossero enormi. D’altronde è innegabile che,
al di là di ogni dietrologia, il risultato scaturito da quella campagna fosse
gigantesco. Anzi, credo proprio che tutte le inutili dietrologie di questi
decenni nascondano in parte anche la rabbia di chi non vuole ammettere un dato
inequivocabile: un gruppo di operai, di proletari organizzati, riusciva
addirittura a rapire il presidente del più importante partito politico italiano.
Il messaggio, anche da un punto di vista propagandistico, era fortissimo.
A trent'anni di distanza ci si scontra ancora
sulla "polis o pietas", se in nome della "ragion di Stato" fosse giusto
trasgredire le leggi pur di salvare una vita. Cosa ne pensi?
Lo Stato italiano trasgredisce le leggi decine di volte ogni giorno.
Trasgredisce ad esempio da 60 anni la sua legge fondamentale, la Costituzione.
Credo proprio che la questione della “ragion di Stato” sia mal posta. Le ragioni
per le quali si decise di non liberare i prigionieri delle Brigate Rosse furono
tutte politiche e nulla avevano a che fare con ragionamenti etici.
Credi che la gestione del sequestro Moro
sarebbe stata diversa se fosse stata condotta da altri brigatisti?
Assolutamente no. Ripeto: la storia delle BR è anche fatta di salti e di
passaggi strategici. Ma questi passaggi furono sempre il prodotto di un
confronto collettivo e aperto.
Cosa ha significato l’uccisione di Moro per il
futuro dell’Organizzazione?
Si parla spesso degli operai in piazza il 16 marzo del 1978 per attaccare le BR
e i loro piani “eversivi”. In realtà, dopo il sequestro Moro, la popolarità
dell’organizzazione era alle stelle anche e soprattutto nel corpo operaio. Le
richieste di adesione fioccavano e forse non sempre la quantità si sposava con
la qualità necessaria ad un’organizzazione clandestina.
E’ comunque innegabile che la campagna di primavera e, in specifico, il
sequestro Moro, rappresentarono una tappa decisiva nella storia
dell’organizzazione. Le BR attaccavano i vertici del potere e il potere
rispondeva rinunciando alla salvezza di un suo uomo. Da quel momento in avanti
il livello dello scontro non sarebbe più stato lo stesso. E infatti non fu più
lo stesso, nel bene e nel male.
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