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Parla Cossiga: ecco i misteri del caso Moro.
04/12/2007 - La Stampa - Claudio Sabelli Fioretti
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Parla Cossiga: "Ecco i misteri del caso Moro"
Claudio Sabelli Fioretti

È ora di parlare dell’assassinio di Moro, l’avvenimento tragico che ha segnato di più la sua vita. Aldo Moro scrisse: «Il mio sangue ricadrà su di voi». Ricorda? Era una maledizione o una preveggenza?

«Tutti dicevamo leggendo le sue lettere: è lui o non è lui? Io ho detto, sbagliando, che non era lui. E me ne pento. Era lui. Era lui e aveva capito come stava andando a finire. Quella frase non era una maledizione, perché lui era profondamente cristiano e non malediva nessuno. Era una preveggenza».

È pentito?

«Sicuramente».

Quand’è che si è convinto a dire che si era sbagliato?

«Tre o quattro anni dopo».

Se avessero rapito Cossiga, Moro sarebbe stato per la trattativa?

«Assolutamente sì».

Che cosa succedeva quando arrivavano le lettere di Moro?

«La prima lettera era indirizzata a me e mi fu portata da Rana. Lui mi disse che gli avevano telefonato i brigatisti che gli avevano indicato il luogo di ritrovamento. Ma io sono convinto che fin da quel momento era iniziata l’attività di un personaggio al quale noi non avevamo pensato. Noi avevamo messo sotto controllo tutti i telefoni possibili, amici, parenti, tutti. Ci sfuggì il viceparroco don Antonello Mennini, figlio del vicedirettore generale dello IOR. Io credo che le Br gli abbiano permesso di recarsi nel covo per incontrare e confessare Moro; almeno lo spero. Anche se Moro non ne aveva certo bisogno!».

C’è una frase di Moro abbastanza singolare: «Se tu, Francesco, potessi raggiungermi, e se io ti potessi parlare, ti convincerei». Sembra un messaggio...

«E dice una cosa. Che io sono intelligente e bravo ma debbo essere guidato. Perché sono plagiato da Enrico Berlinguer».

Moro cercava di stimolare il suo orgoglio... era un invito... vieni...

«Ma mi sembra impensabile che il ministro dell’Interno potesse entrare in un covo delle Br».

Moro ha scritto tante lettere...

«Scrisse due lettere anche a una sua studentessa dell’alta borghesia che si era innamorata di lui. In un primo tempo le nascosero. Sono saltate fuori dopo. La famiglia ha fatto una cosa miserevole: un comunicato Ansa per dire che questa ragazza non c’entrava niente. Io ero furibondo... questa povera ragazza che gli aveva voluto bene e con la quale non c’era stato nulla. Lei gli aveva spesso messo a disposizione il salotto di casa sua dove lui faceva la cosa che gli piaceva di più: incontrare gli studenti».

In questa lettera che cosa le diceva?

«La salutava, la ringraziava per l’affetto che aveva avuto per lui».

Qual è stata la cosa che l’ha convinta che don Antonello aveva visto Moro?

«La serenità con cui si sentiva che ha affrontato la morte. Era la serenità di uno che si era confessato, che era a posto con Dio. E poi c’è quel problema della borsa, delle carte che lui ha chiesto: qualcuno deve avergliele portate. Il giorno dopo che Moro fu ucciso Don Mennini, il prete, da sacerdote diocesano è entrato, di autorità, nella carriera diplomatica. Ed è stato fatto partire segretamente per la nunziatura del Congo. Adesso è vescovo».

E anche il fatto che Moro sapesse che Misasi non era sulla linea della fermezza...

«Misasi aveva esposto i suoi dubbi a non più di quattro di noi. Qualcuno di questi quattro lo disse alla famiglia. Ma come fece la famiglia a farlo sapere a Moro?».

Altri indizi?

«Una delle figlie andò da un amico magistrato a chiedergli se fosse disposto a fare l’avvocato difensore di Moro nel processo che le Br gli stavano facendo. Il magistrato si disse disposto ma avvertì subito i carabinieri. Si salvò così dai guai che poteva passare».

Quante volte ha letto le lettere?

«Le so a memoria».

Sapeva che lo avrebbero ucciso?

«Io ero uno dei pochi che capiva che la linea della fermezza avrebbe portato alla sua uccisione. Io da giovane ho letto tutto o quasi Lenin, tutto o quasi Stalin. Le Br erano composte da giacobini-leninisti fuori dalla storia. Io sapevo che loro dovevano essere implacabili. Per loro era assolutamente logico prendere, condannare e ammazzare Moro. Quando io sono andato a trovare Gallinari in carcere, la prima cosa che mi ha detto fu: “Chiariamo una cosa, io sono stato, sono, e rimarrò sempre comunista e lei per me rimane sempre il ministro dell’Interno”. Mi disse anche: “Io sono un operaio figlio di contadini, autodidatta, io non sono come quei compagni colti che lei ha incontrato”. Intendeva dire Curcio, evidentemente».

E lei che cosa gli ha detto?

«Gli ho detto che non avevano capito nulla. Non avevano innanzitutto capito che avevano vinto alla grande. Sarebbe bastato che aspettassero qualche ora. Il consiglio nazionale della Dc avrebbe dato il via alle trattative. Io ne ero tanto certo che giravo con la lettera di dimissioni in tasca perché il ministro dell’Interno dell’intransigenza non poteva essere il ministro della trattativa. E gli dissi anche che avevano sbagliato a non approfittare dell’appello del Papa. Se lo avessero liberato dopo le parole del Papa, il Pci e la Dc sarebbero rimasti in braghe di tela. Ma loro non avevano lo spessore culturale per gestire politicamente un evento di questo genere».

Che cos’altro le ha detto Gallinari?

«Mi ha detto: “Molta gente ormai sapeva dove eravamo, se si fosse avvalso dei vigili urbani invece che dei commando della marina ci avrebbe scoperto”».

Le ha detto che eravate arrivati vicino?

«Me l’ha fatto capire».

La Dc non tratta per Moro ma tratta per Cirillo... perché questa doppia morale?

«La vera morale della Dc era quella di Cirillo: si tratta».

E allora perché non si trattò?

«Perché fummo determinanti Andreotti, io, Donat Cattin e Berlinguer. In caso di trattativa Berlinguer avrebbe fatto saltare il governo in due minuti».

La Stampa, 4 dicembre 2007