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"Un testimone che esercita il diritto di parola": così si definisce Giovanni Moro nel suo libro Anni Settanta (Einaudi), agile pamhlet su un periodo che segnò profondamente la storia italiana più recente, con il quale il sociologo e politico figlio dello statista ucciso dalle Br riflette e fa riflettere, oltre la dietrologia e il revisionismo, sulle tante vicende di allora rimaste aperte ancora oggi. Un testimone del nostro tempo, dunque, che in questa sua veste sarà domani sera alle 21 a Piacenza, all'Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, per un nuovo appuntamento di Testimoni del Tempo dal titolo "Anni Settanta". Per introdurre l'incontro di domani, abbiamo rivolto a Giovanni Moro alcune domande sull'argomento. Che posto hanno gli anni '70 nella sfera pubblica in Italia? «Nessun posto. E' proprio questo il punto di partenza della mia riflessione: il fatto che gli anni '70, pur rappresentando indubitabilmente un periodo cruciale della nostra storia, sono vittima di sentimenti contradditori o di ricordi in cui viene utilizzata una forte selettività, per cui alcune cose si ricordano e altre no, tanto che alla fine non si riesce neanche più a capire perché sono successe le cose che si ricordano meglio». Nel suo libro lei parla di "patologie del ricordo", che toccano il silenzio, la vergogna e la nostalgia. Come possono convivere sentimenti così contrastanti tra loro? «In effetti è molto strano che si riesca a tenere insieme, nello stesso momento e qualche volta anche nelle stesse persone, sentimenti così diversi. Questa stranezza è un indicatore del problema di memoria che viviamo a proposito di quel periodo. O per meglio dire della mancanza di memoria. Aggiungo che in effetti questa contraddizione non è solo nelle nostre teste, ma anche nella realtà, dato che effettivamente in quegli anni sono state fatte nello stesso tempo molte cose di cui vergognarsi e molte altre di cui avere nostalgia». Un altro capitolo del libro è intitolato "Speranze e tempeste". Perché ha utilizzato questo binomio per caratterizzare quel decennio? «L'ipotesi che tratteggio in quel capitolo del libro è che si siano scontrati negli anni '70 due tipi di conflitti, che avevano differenti agende e diversi ordini di priorità. Da una parte c'era un conflitto sull'assetto dello stato, sul regime politico, sociale ed economico che il nostro paese doveva avere, sul confronto tra democrazia e comunismo, democrazia e fascismo, capitalismo ed economia di stato. Dall'altro lato c'era invece un conflitto che riguardava il ruolo della cittadinanza, lo status di dignità dei cittadini nella vita pubblica, su questioni come il welfare, i diritti civili, l'ambiente, la famiglia? Si trattava di due ordini di priorità completamente differenti, di due ambienti operativi nella vita pubblica in contrasto tra loro, dato che a causa del terrorismo si faceva sempre più difficile la partecipazione alla vita pubblica». Tra le parole-chiave che lei individua per quegli anni c'è infatti anche la "partecipazione". E' dalle difficoltà a cui ha ora accennato che ha cominciato a scomparire in Italia la partecipazione civile? «In verità, io non credo che la partecipazione civile sia scomparsa, credo che quella grande energia di allora in qualche modo sia stata frustrata, non abbia trovato una corrispondenza nella realtà quotidiana della democrazia, non che sia scomparsa. Oggi in Italia c'è una enorme quantità di movimenti, di associazioni di cittadini che si attivano su questioni pubbliche. Oggi forse la partecipazione civile ha preso forme meno visibili di quelle che siamo abituati a conoscere, ma c'è ancora, perché quando c'è una posta in gioco, come c'è ora, la gente scende ancora per le strade». Come si inserisce nel quadro da lei tratteggiato, il ritorno del terrorismo che si è manifestato in Italia negli ultimi tempi? «L'Italia è l'unico paese d'Europa in cui il terrorismo politico cominciato negli anni '70 continua a riprodursi. Una delle cause di questo fenomeno è, a mio parere, il confine incerto che c'è tra estremismo e terrorismo. Mentre il primo fenomeno è normale nella vita delle democrazie e va gestito come un fatto fisiologico, del secondo ci si dovrebbe preoccupare. Invece assistiamo in Italia a un generale apprezzamento nei confronti degli ex terroristi, che vengono addirittura in certi casi presi ad esempio di paladini della lotta per la giustizia. Chi allora non c'era e oggi ha vent'anni potrebbe pensare che sia una buona idea passare dal manifestare in piazza all'impugnare le pistole e cominciare a sparare». Non posso non farle una domanda sulla vicenda di Aldo Moro, alla quale lei dedica un capitolo del libro, intitolato "Fantasmi". Di che cosa è emblematico il caso del rapimento e dell'assassinio di suo padre? «Tante sono state le vicende di quegli anni che ancora oggi, come fantasmi, ritornano per ricordarci i nostri doveri nei loro confronti che non sono stati onorati. Nel libro ricordo anche le due stragi con cui si aprirono e si chiusero quegli anni: la strage di Piazza Fontana e quella della stazione di Bologna, che rimangono per tanti versi ancora oscure. La vicenda di Aldo Moro è solo un esempio di come su tante di queste vicende si abbia ancora un dovere di memoria di verità, l'esigenza di fare giustizia con la verità, che è in un certo senso, a trent'anni di distanza, l'unica misura possibile di giustizia». Libertà - 18 dicembre 2007 - Caterina Caravaggi
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