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Le false leggende sulla morte di Moro L´assassinio di Aldo Moro torna ad essere evocato con una pièce teatrale basata sulle sue lettere dal covo Br dove rimase segregato per 55 giorni. "Repubblica" ha ampiamente recensito lo spettacolo per cui, se ne parlò qui, non è per invadere il campo del critico teatrale ma perché credo che la riproposizione di quel terribile evento abbia riacceso tra gli spettatori (sono reduce da una vivace discussione in proposito) i laceranti contrasti che divisero il cosiddetto fronte della fermezza dal cosiddetto partito della trattativa. Peraltro non si trattava di una tenzone teorica sulla ragion di Stato, quanto di una pragmatica e drammatica scelta. Se si fosse scambiato Moro con 13 terroristi, come era stato chiesto, si sarebbero delegittimate le forze di polizia, aperta la strada a continui ricatti, accettato di interloquire con le Br come una forza politica riconosciuta. Sarebbe diventato problematico sconfiggerle come è invece avvenuto. Dopo, però, 159 innocenti uccisi e 198 feriti (senza contare le stragi di destra). Il testo di Augias e Polchi espone correttamente i termini dell´interrogativo ma lascia aperto il dilemma. Sul piano del giudizio politico l´esito rischia di suonare fuorviante. L´impatto emotivo dell´ascolto a viva voce delle strazianti parole di Moro provoca, almeno in chi non possiede – e sono i più – vigile senso e memoria storica, non solo un empito di pietà per la vittima innocente ma un moto di indignata condanna per chi lo avrebbe lasciato morire, anzi per chi desiderava in cuor suo quella morte e nulla colpevolmente fece per evitarla. Così le leggende metropolitane, secondo cui lo statista sarebbe stato vittima di una specie di congiura ordita da Andreotti e Berlinguer, oppure di un complotto internazionale ad opera (a scelta) o della Cia o della Nkvd sovietica per tenere il Pci lontano dal governo, tornano a circolare come plausibili. In un simile contesto la colpevolezza dei brigatisti viene annullata ed essi appaiono come automi meccanici che eseguono ordini altrui. Si tratta di una indecente turlupinatura che a tutt´oggi seguita a correre di bocca in bocca. La tesi del complotto è correlata ad una affermazione che circola da sempre, tanto da diventare luogo comune, e che nel copione dello spettacolo viene ripetuta. Quella secondo cui il rapimento e l´esecuzione «hanno cambiato per sempre la nostra prospettiva... per la rottura traumatica di un disegno politico che avrebbe permesso l´ingresso del partito comunista al governo». Ebbene, si tratta di un convincimento del tutto privo di fondamento. Non esistevano, infatti, le condizioni politiche per una entrata del Pci al governo. Del resto il vertice della Dc nel gennaio del 1978 aveva respinto all´unanimità, Moro compreso, la richiesta di Berlinguer che accettò, quindi, la proposta di un appoggio esterno, il che suscitò, comunque, vasti dissensi nella sinistra del partito. Sopravviene la strage e il rapimento Moro. Questo sopisce i malumori ma subito dopo i funerali le tensioni ripartono. Scriverà Alberto Cavallari: «L´unità nazionale pare più una barricata di sentimenti generosi ma provvisori che il solido punto di partenza del rinnovamento. Quando le Br passano all´esecuzione della sentenza, i giochi sono fatti, l´unità nazionale imbocca la strada del suo declino e del suo epilogo». Il 14 maggio, si svolgono le amministrative con un esito clamoroso: la Dc passa dal 38,7 al 42, 5, il Psi balza dal 9,6 al 13,4 e il Pci crolla dal 34,4 al 26,5. I comunisti non sono maturi per governare, la maggioranza dei cittadini li respinge e, ad un tempo, il suo elettorato li penalizza per l´appoggio ad Andreotti. Emerge una sinistra estremista, giustificazionista verso le Br. Berlinguer muta strategia: ad ottobre si reca a Mosca e strappa a Breznev un comunicato contro il terrorismo. Subito dopo rompe la solidarietà nazionale votando al Parlamento contro l´adesione dell´Italia al Sistema monetario europeo. Quindi, il 26 gennaio del 1979, dichiara «impossibile» la permanenza nella maggioranza ed imprime una svolta a sinistra del partito fino ad incitare gli operai ai cancelli di Mirafiori ad occupare la Fiat. Ripropone poi la fuoruscita dal capitalismo e condanna la cultura riformista sia cattolica che socialdemocratica «che non cessa di adoperarsi affinché l´ordinamento economico e sociale sia ripristinato nei suoi perduti equilibri». Nel 1984 tornerà ad appoggiare la strategia militare sovietica sulla questione degli euromissili. Non c´era stato bisogno di alcun complotto per tenere lontani i comunisti dal governo del Paese. Fino alla caduta del Muro vi hanno provveduto per conto loro. Mario Pirani (La Repubblica, 26 novembre 2007)
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