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Giovanni Moro: mio padre, i politici, il Vaticano
«Come tutti sanno, i fantasmi sono morti che non riposano in pace e che non lasciano in pace nemmeno i vivi, perché continuano a manifestarsi chiedendo loro di onorare un debito, o di liberarli dalla maledizione che consiste proprio nel dover ritornare. Penso che la nostra vita pubblica sia attraversata da molti fantasmi degli Anni Settanta. Il più ovvio e ingombrante di questi fantasmi è quello di Aldo Moro». Parole che pesano come macigni, se a scriverle è un figlio come Giovanni Moro. Un figlio che, come rivendica fin dalla premessa del suo libro - e come dimostra la sua storia -, ha sempre evitato «di fare della mia condizione personale una professione». Non per questo Giovanni Moro ritiene risolta la vicenda della sua famiglia e quella più vasta degli "Anni Settanta", titolo del saggio in libreria da dopodomani, con una scelta condivisa tra l' autore e l' editore Einaudi per sottrarre le riflessioni di Moro al frastuono degli anniversari (il trentesimo dell' assassinio del presidente Dc cade l'anno prossimo). «Pressoché tutti i sequestri organizzati da gruppi terroristi prima e dopo la vicenda Moro (dal sequestro Sossi a quello del generale Dozier, passando per l' interessante vicenda del sequestro Cirillo) sono stati risolti in uno dei due modi che furono invece evitati nel caso Moro: o attraverso la trattativa, o liberando l' ostaggio». Per lo statista democristiano, scrive il figlio, non fu fatta né una cosa né l' altra: Moro fu perduto «da una non-decisione», in cui si cumulano l' inerzia e l' inefficienza. Per Cossiga e Andreotti, Giovanni Moro ha parole dure: «In una democrazia normale, il ministro dell' Interno avrebbe probabilmente passato il resto della sua vita a coltivare rose o a scrivere libri di memorie per riscattare la sua immagine. In Italia, invece, egli è stato quasi subito nominato primo ministro per due volte, quindi per due volte presidente del Senato e infine presidente della Repubblica. Difficile non sentire in tutto ciò il sapore di un premio, naturalmente di consolazione». Andreotti è accusato di aver «mentito spudoratamente», «dicendo che una delle vedove di via Fani aveva minacciato di darsi fuoco in piazza se si fossero aperte qualsivoglia trattative» senza specificarne il nome; perché «quella vedova non esisteva». Quanto al Vaticano, «mostrò come minimo di non comprendere i termini della questione», in particolare la segreteria di Stato (retta allora da Jean-Marie Villot), che si oppose a un' iniziativa dei vescovi italiani «con le stesse parole del sommo sacerdote Caifa nel dare via libera alla condanna di Gesù: "È meglio che un uomo muoia perché il popolo viva"». E a sinistra, con l' eccezione di Ingrao, sono occorsi trent'anni perché - «in occasione delle polemiche sulla gestione del sequestro di Daniele Mastrogiacomo» - Piero Fassino violasse «il tabù che vieta a esponenti del Pci anche solo di pronunciare parole di dubbio per il loro comportamento di allora. Ma la presa di posizione è stata duramente contestata da destra come da sinistra, e paradossalmente anche da autorevoli commentatori di Repubblica, che questa volta non ha considerato come inaccettabile contaminazione qualunque contatto con i terroristi, come invece fece all' epoca del sequestro Moro». Il caso Moro è stato «preso in ostaggio» da due attitudini opposte che all' autore sembrano «due fratelli gemelli, due facce della stessa medaglia»: «la dietrologia», che considera le Br come braccio armato di una o più trame occulte, «ha una sconfinata bibliografia e grazie a essa qualche regista e produttore cinematografico ha fatto ottimi affari»; e quello che Moro chiama «revisionismo», secondo cui nel rapimento e nel sequestro del presidente Dc «non ci sarebbe proprio nulla di misterioso o di non noto ma rilevante». L' autore non si riconosce in nessuna delle due attitudini. Ed elenca molti punti da chiarire. «Posso dire di non avere ancora capito bene (al di là delle sedute spiritiche e delle spiegazioni idrauliche) che cosa successe precisamente attorno al covo di via Gradoli; di non essere affatto convinto che i terroristi ci abbiamo detto tutto (semmai tutto e il suo contrario), e di non accettare che siano loro a decidere che quanto non è noto riguardi solo "particolari irrilevanti"; di essere curioso di conoscere quale ruolo abbiano avuto nel sequestro soggetti rimasti sullo sfondo come il brigatista Senzani o i personaggi legati alla scuole di lingue Hyperion, o ancora i vari latitanti all' estero; di non essere affatto convinto che i nostri servizi di informazione dell'epoca - per comodità di solito descritti come una specie di Club di Topolino - non siano stati in grado di svolgere una sufficiente attività di intelligence prima, dopo e soprattutto durante il sequestro». Altri dubbi riguardano il ruolo dei vari gruppi della criminalità organizzata. Le relazioni tra i brigatisti in carcere e settori politici e istituzionali per il tramite di preti e suore. La P2, sorta di «establishment» dell' epoca. E la gestione delle carte del covo di via Montenevoso. In un paragrafo particolarmente amaro, Giovanni Moro rifiuta l' interpretazione delle lettere del padre dalla prigionia come segno di «familismo amorale»: il suo, rivendica, fu sempre un discorso politico. Premettendo di non aver mai votato per il suo partito, rievoca la figura di un «personaggio da molto tempo a rischio, a causa della sua politica di apertura a sinistra», a lungo minacciato «di eliminazione fisica». Sull'orlo della scomunica nella Dc per la sua apertura ai socialisti. «Obiettivo del progetto di golpe del generale De Lorenzo e dei disegni di Edgardo Sogno». «Sequestrato a pochi mesi dalla sua elezione, data per scontata, alla presidente della Repubblica, colpito, come diceva il generale Dalla Chiesa dei bersagli della mafia, nel momento di massimo potere e insieme di massimo isolamento». «Un personaggio a cui non mancavano certo nemici (non avversari), in molti ambienti che contano: uno degli uomini più odiati e avversati della Prima Repubblica. Basti pensare al ritratto caricaturale cucitogli addosso dalla destra e acriticamente accolto da tanta sinistra, specialmente da salotto: l'uomo incomprensibile e volutamente oscuro, il tentennante, l'indolente (...); fino ad arrivare ai ritratti montanelliani, secondo cui le apparizioni di Aldo Moro vengono sempre «precedute e sottolineate da un rullo di tamburi, come quello che nei melodrammi accompagna il passaggio sulla scena dei condannati, e da premonizioni listate a lutto"». E alla «dichiarazione del cardinale Siri, il giorno del suo rapimento: ha avuto quello che meritava». Ma sarebbe sbagliato pensare a un libro tutto concentrato su un dramma famigliare. Giovanni Moro restituisce anzi una visione complessiva - e non negativa - degli Anni Settanta, che non possono essere ridotti al confronto ideologico e alla violenza politica: poiché furono anche gli anni delle riforme, dei diritti civili, della partecipazione, che l'autore ha vissuto fondando un movimento giovanile di impegno, «Febbraio ' 74», antenato di Cittadinanzattiva. Anche questo lo induce a dirsi non pregiudizialmente ostile a un'amnistia, purché - rovesciando il titolo di un editoriale del Corriere della Sera del 2003 - non sia «un'amnistia che porti alla verità» ma, secondo Moro, «una verità che porti all'amnistia». «In passato mi è capitato di dichiarare che avrei volentieri barattato la giustizia con la verità. Forse oggi direi più precisamente che, essendo passati così tanti anni, la verità è l'unica forma di giustizia praticabile o auspicabile», com'è accaduto in Sudafrica. «In ogni caso, è ciò di cui abbiamo bisogno come Paese per liberarci dei fantasmi degli anni Settanta e insieme riscattare tutta quella decade». «Anni Settanta» è il titolo del saggio di Giovanni Moro che uscirà dopodomani per Einaudi: «È stato il decennio della partecipazione civile e delle riforme, ma anche quello delle vittime e dei carnefici» 14 ottobre, 2007 - Corriere della Sera
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