Caso Moro e Brigate Rosse
Raccontare gli anni di piombo
di
Davide Gianluca Bianchi
Intervista a Franco Mazzola
16 settembre 2007
I giorni del diluvio,
Aragno, 2007 (pp. 465 - € 12,00)
Franco Mazzola è un avvocato piemontese, attualmente
Difensore civico della Provincia di Cuneo, che a lungo è stato deputato per la
Democrazia Cristiana dal 1972 al 1983 e senatore del 1983 al 1994. In questo
torno di tempo, più che ventennale, ha assunto rilevanti incarichi di governo
come sottosegretario alla difesa, al Commercio estero e, soprattutto, alla
Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti nei governi Andreotti,
Cossiga e Forlani. E’ stato quindi un politico di primissimo piano della
cosiddetta Prima Repubblica, anche se questa è una dizione che, come molti
uomini politici di quella fase della storia italiana, lui rifiuta adducendo più
che fondati argomenti.
Lasciati gli impegni di governo nel 1981 ha scritto
quasi di getto un romanzo, dedicato alla stagione del terrorismo, che porta come
titolo I giorni del diluvio. Questa storia è stata pubblicata anonima
nel 1985 con l’editore Rusconi ed ora, a distanza di un altro ventennio
abbondante, esce con l’indicazione del suo autore per i tipi di un piccolo ma
attivo editore piemontese, Aragno. Incontrando il sen. Mazzola non possiamo che
partire da questa circostanza.
Senatore, perché nella prima edizione il libro
uscì anonimo?
Nel corso degli anni della mia vita parlamentare avevo tenuto un diario nel
quale annotavo giornalmente i fatti politici ma anche quelli familiari e della
vita quotidiana. L’esistenza di quel diario era abbastanza nota anche al di
fuori della cerchia dei miei amici e molti ritenevano che quelle pagine
contenessero notizie inedite sulle vicende del tempo e capaci di gettare una
luce sui fatti del terrorismo ed in particolare su molti aspetti oscuri della
tragica vicenda del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro: per queste ragioni
scelsi di pubblicare il romanzo come anonimo.
Ci fu qualcuno che riuscì a penetrare
l’anonimato, prima dell’edizione di quest’anno?
Sì. Quando alla fine degli anni Ottanta, a Milano, vennero intrapresi dei lavori
di ristrutturazione in quello che era stato un covo della Brigate Rosse venne
alla luce un dossier immediatamente denominato “secondo memoriale Moro” (il
primo era stato rinvenuto, anni prima, alla scoperta dello stesso covo). A
seguito di quel ritrovamento qualcuno riesumò la storia del romanzo anonimo e
dei miei diari. Intervenne allora Valerio Riva che, in una articolo su Epoca
raccontò la storia del libro rivelando l’identità dell’anonimo; intervistato da
Repubblica confermai. Come spesso succede in questi casi vi fu per
qualche giorno un dibattito sui giornali, poi tutto si spense e tornò il
silenzio anche sul libro.
Benissimo, ora è tutto più chiaro e le possiamo
fare finalmente la domanda canonica che, in genere, apre ogni intervista di
recensione di un’opera letteraria: perché ha scritto questo romanzo?
Dire adesso, quasi trent’anni dopo, cosa mi spinse a scrivere il romanzo non mi
riesce facile perché sono io stesso molto incerto nell’identificarne il vero
motivo. Fu, forse, l’esigenza di esprimere, sia pure nelle licenze di una trama
romanzesca, quei frammenti di verità che avevo creduto di cogliere nel ripensare
a posteriori le cose successe in quei giorni. Fu, forse, il desiderio di
esprimere pensieri e valutazioni che avrebbero potuto trovare posto in un saggio
storico-politico se mi fossi sentito all’altezza di cimentarmi su quel terreno;
ma non mi ritenevo capace di farlo. Fu, ancora, l’esigenza di dare voce ai
sentimenti che avevo provato in modo forte ed anche doloroso ed agli
interrogativi che mi avevano angosciato durante i cinquantacinque lunghissimi
giorni del sequestro Moro e nei terribili anni che seguirono.
I personaggi che si incontrano sono totalmente
di fantasia, o qualcuno è modellato su figure reali rese note dalla cronaca del
terrorismo?
Alcuni sono assolutamente inventati, altri invece, pur essendo di fantasia, sono
chiaramente riconoscibili. In particolare ho cercato di riprodurre il dibattito
interno alla B.R. fra “falchi” e “colombe”, ho dato voce alle dissidenze in seno
alla lotta armata, ho reso espliciti i dubbi non possono non aver preso quelle
persone quando hanno fatto loro certe determinazioni.
Lei che li ha vissuti da posizioni
istituzionali, cosa direbbe oggi ad un giovane per permettergli di capire gli
anni di piombo?
Che si è trattato di un periodo molto particolare della nostra storia, in cui,
sotto la spinta del Sessantotto, una parte della società italiana, largamente
minoritaria, era giunta alla convinzione che il raggiungimento di certi
obiettivi di “giustizia sociale” potesse essere conseguito soltanto percorrendo
la via della lotta armata. Alcuni giovani di quel periodo all’inizio pensarono
probabilmente di essere dei Robin Hood, o qualcosa di analogo, ma ben presto
questo tentativo di rivelò un’esperienza terribile, una rivoluzione che non era
una rivoluzione, ma solo lo sforzo di prendere il potere attraverso una campagna
di morti. Oggi si dice che il terrorismo brigatista era meno immorale di quello
islamista, perché le loro uccisioni erano meno indiscriminate e casuali, ma non
si deve dimenticare che venivano assassinati servitori dello Stato che compivano
il loro dovere con dedizione e, personalmente, non avevano alcuna responsabilità
politica.
In particolare a cosa miravano le B.R.?
Miravano ad ottenere un riconoscimento politico che, se raggiunto, avrebbe
trasformato l’Italia in un altro Libano, perché era chiaro che nel momento in
cui vi era sulla scena politica un “partito armato”, anche gli altri partiti
sarebbero stati legittimati ad esserlo, creando così una battaglia politica
manu militari, contesa in cui, peraltro, le B.R. partivano dall’enorme
vantaggio di avere già questa organizzazione dalla propria nascita.
In un’intervista Fraceschini, con Curcio
fondatore della Brigate Rosse, disse una volta che lo Stato aveva vinto
sociologicamente ma non politicamente, vale a dire aveva avuto la meglio nel
confronto militare con la lotta armata ma non era venuto incontro a quei
bisogni, ancora inappagati, che erano stati alla base del terrorismo: a suo
avviso è una provocazione accettabile?
Ritengo non sia vero e, vista a posteriori, penso che questa mia considerazione
assuma uno spessore oggettivo. Il fatto stesso che il terrorismo sia stato
battuto significa che ha perso anche politicamente e che le esigenze di cui
parla Franceschini al più chiedevano di essere soddisfatte attraverso una
politica di riforme, non con una sanguinosa sovversione dell’ordine costituito.
Il fatto poi che ci sia oggi gente che ancora uccide agitando il vessillo della
rivoluzione marxista-leninista è certo preoccupante, oltre che demenziale, ma si
deve riconoscere che il seguito di questi piccoli gruppuscoli è assolutamente
nullo, inesistente, diversamente da quanto avveniva negli anni di piombo in cui
l’area della “contiguità” era un fenomeno innegabile.
Perché dopo la fine del terrorismo è prevalso il
desiderio di voltare pagina?
Appena chiusa quella stagione c’è stata la caduta del muro di Berlino e di
conseguenza la fine della Prima repubblica (anche se personalmente non accetto
questa definizione, perché abbiamo ancora la stessa costituzione) e tutto si
appuntato su questo passaggio storico con una rapida accelerazione che ha
rimosso il terrorismo in sé e per sé. E alla fine Tangentopoli ha travolto anche
le analisi sul terrorismo. Non rivelo nulla di inedito se dico che dietro alle
B.R. inizialmente c’erano i servizi segreti della Cecoslovacchia e, da un certo
punto in poi, quelli bulgari. Fenomeno che, in quanto eterodiretto dal mondo
comunista dell’Est, aveva così dei legami a doppio filo con la realtà della
“cortina di ferro” che separava i due blocchi, per cui, una volta caduto il muro
di Berlino, anche il terrorismo finiva per risultare di minore attualità e
comunque politicamente superato.
In merito al sequestro Moro, a suo avviso è vero
quanto è stato sostenuto, e cioè che sarebbe stata più destabilizzante la
liberazione che l’uccisione di Moro e che la cosiddetta “strategia delle
fermezza” si nutrisse, in realtà, di questa consapevolezza?
Certo, ma per le ragioni che ho esposto sopra, e cioè che la liberazione avrebbe
significato non solo una vittoria della B.R. ma addirittura un loro
riconoscimento politico, e la via attraverso cui conseguire questo successo
sarebbe stata certamente la liberazione di Moro alle condizioni dei brigatisti.
Lo Stato si sarebbe dimostrato cedevole; che poi Craxi lo vedesse con favore
solo perché questo, nella sua ottica, indeboliva la Democrazia Cristiana è un
altro discorso…