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vuoto a perdere |
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Il perdono di Sabina Sabina Rossa, deputata del Pd, si ricorda di quando era piccola e suo padre tornava dalla fabbrica e si fermava sotto casa, ai giardinetti, per guardare lei e gli altri bambini che giocavano. “Si arrampicava sulle strutture di ferro, attirava subito l’attenzione di tutti, e sapeva fare una magia speciale: raccoglieva i sassolini e li trasformava in caramelle da offrirci”. Guido Rossa è stato ucciso proprio sotto casa, a Genova, una mattina del 1979 (aveva quarantaquattro anni), e Sabina uscì poco dopo per andare a scuola, alle magistrali, passò accanto alla macchina del padre ma non vide il suo corpo riverso sul volante. Se ne accorse lo spazzino. Dopo trent’anni Vincenzo Guagliardo, il brigatista che sparò i primi colpi a Guido Rossa e venne condannato all’ergastolo, ha avuto la libertà condizionale. Non deve più tornare in carcere la sera a dormire, non è più un ergastolano, grazie a Sabina Rossa, che ha combattuto per lui, che ha chiesto al giudice di liberarlo, e poiché il giudice rispondeva che la sua richiesta era “isolata e poco rappresentativa”, ha cercato altre persone, altre vittime, “persone che voglio ringraziare”, racconta al Foglio con gli occhi che luccicano, lo sguardo fiero di chi sa che ci sono le cose giuste e sbagliate, e lei ha fatto quella giusta. “Queste persone, di cui non posso fare i nomi, provano come me fastidio per l’interpretazione che viene data dai giudici al concetto di ravvedimento. In questo sistema reocentrico il ravvedimento significa perdono da parte delle vittime, a cui vengono mandate lettere ferocemente burocratiche in cui si chiede se perdonano l’assassino. Ma il perdono è un fatto privato, dentro il quale ci sta una vita intera, un percorso, un pathos, un’energia, non è la logica dello scambio, e l’applicazione di una legge non deve essere una questione fra vittime e colpevoli”. Sabina Rossa ha saputo l’altra sera della libertà condizionale per Guagliardo, ne è stata contenta, e ieri mattina, prima di partire da Genova per Roma, ha cominciato a leggere con la sua bambina di dieci anni, Eleonora, l’articolo del Corriere della Sera che raccontava la vicenda. “Ovviamente è troppo difficile per lei, le ho detto che ne riparleremo meglio, ma è importante che io possa spiegarle a cuor leggero chi era suo nonno, cos’è successo dopo e cosa pensa la sua mamma della giustizia e della possibilità che hanno gli uomini di cambiare”. E’ stato un lungo percorso. Sabina aveva sedici anni quando Guido Rossa fu gambizzato e ucciso per avere denunciato il postino dei volantini delle Brigate Rosse dentro l’Italsider, e lei non sapeva nemmeno di quel gesto. “Ho capito solo dopo che mio padre aveva vissuto i suoi ultimi tre mesi come in un inferno, ma lui che cercava sempre il dialogo e il confronto quella volta volle proteggerci e non ci disse niente per non farci preoccupare: era un uomo coraggioso, un alpinista, abituato a prendere decisioni rapide, e anche allora fece così”. Oso chiedere a Sabina Rossa cosa pensi, da figlia e da madre, di quella decisione fatale. “Ce l’ho sempre in mente, e mi sono chiesta e mi chiedo ancora, da figlia, se ne sia valsa la pena. Ma lui aveva un fortissimo senso del dovere, era consapevole della minaccia che quell’opacità portava al mondo operaio e, da sindacalista e da uomo con rigore morale assoluto, non avrebbe potuto scegliere altrimenti”. Sabina Rossa è orgogliosa di avere ereditato il carattere del padre (oltre alla passione per il paracadutismo, in cui si rifigiò dopo la sua morte). Ma non è stato immediato decidere di andare fino in fondo a questa storia. “Per molti anni ci ho fatto i conti quotidianamente, ma come mettendola da parte, cercando di andare avanti con l’istinto vitale di una ragazzina. Poi una sera, mia figlia aveva tre anni, ho visto l’ennesimo filmato televisivo su mio padre e ho capito che era ora di immergermi lì dentro: dovevo restituirgli qualcosa”. “Tu hai un debito con me, non puoi rifiutarti di incontrarmi”, scrisse Sabina a Vincenzo Guagliardo, dopo che lui al telefono le aveva detto no, non vediamoci. Non le aveva mai scritto le lettere che avvocati e magistrati incoraggiano a mandare alle vittime, non voleva scoperchiare tombe per ottenere dei vantaggi. “Ma dopo la mia lettera mi richiamò, ci incontrammo: in tre ore di colloquio ci può stare dentro il mondo”. Era il 2004, e da allora Sabina Rossa ha fatto di tutto perché Guagliardo fosse liberato (lui non disse una parola al giudice nemmeno su quell’incontro). “Quella persona era diversa, e una società civile deve sapere andare avanti ed essere in grado di raccontare la propria storia ”. Lei ha voluto parlare con tutti i protagonisti di quei giorni, ha voluto sapere ogni cosa: i compagni dell’Italsider, il magistrato che indagò sull’omicidio, quelli che si sono dissociati, i non pentiti, le loro compagne, i compagni del Pci, tutti. Anche per questo adesso risponde pacata, sorride, e gli occhi sono lucidi di emozione tranquilla. “Sono stata comunque fortunata, ho avuto mio padre accanto per sedici anni, a differenza di tanti altri: lo posso ricordare mentre trasforma i sassolini in caramelle”. di Annalena Benini (28 aprile 2011, Il Foglio)
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