| Home | |
vuoto a perdere |
|
Taliercio, il figlio parla 29 anni dopo Antonio ha l’espressione tesa, il viso leggermente arrossato, Cesare un sorriso lieve dai contorni amari. Entrambi hanno scritto in faccia un certo imbarazzo. Quello dell’attenzione del pubblico del centro culturale Candiani di Mestre. Da pochi secondi si sono accese le luci nella sala dove è stato proiettata l’anteprima de «L’alba del giorno 47», il documentario che verrà trasmesso giovedì alle 23,30 su Raidue per la serie «La storia siamo noi» di Giovanni Minoli sulla morte di Giuseppe Taliercio. Antonio e Cesare infatti sono due dei cinque figli dell’ex direttore della Montedison che fu assassinato dalle brigate rosse nell’estate del 1981. Loro non hanno mai voluto rilasciare interviste in questi anni, ma ieri, nel giorno del 29˚ anniversario dal brutale omicidio del padre hanno voluto essere presenti, perché «dimenticare è uccidere per la seconda volta». «Mio padre non era un servo delle multinazionali - dice Antonio Taliercio - era un uomo tranquillo capace di sorridere, un cattolico che faceva volontariato e un padre che ci ha insegnato a parlare con tutti ». Le immagini di repertorio del documentario infatti sono quelle di una famiglia benestante degli anni Settanta: i compleanni e le comunioni dei figli, le gite in montagna, i piccioni di piazza San Marco che scompigliano i capelli. Eppure nella mente della colonna mestrina delle Brigate Rosse Taliercio incarnava il male: per il suo assassino e torturatore, Antonio Savasta, per il dirigente delle Br Cesare di Lenardo e per Vanzi, Lo Bianco e Francescutti, esecutori materiali del sequestro, Taliercio era responsabile di tutte le morti sul lavoro che si erano verificate in quegli anni. Poco importava che le competenze in fatto di sicurezza sul lavoro dei suoi rapitori e assassini fossero nulle come confessa l’ex brigatista e autore del rapimento Gianni Francescutti intervistato da Davide di Stanlio e Raffaella Cortese per conto di Minoli. Il corpo di Giuseppe Taliercio ucciso dalle Br nel 1981 (archivio) Il corpo di Giuseppe Taliercio ucciso dalle Br nel 1981 (archivio) «Durante il processo non riuscivamo interloquire con Taliercio sul piano tecnico - spiega - Nei giorni di prigionia di Taliercio non avevamo fatto richieste di riscatto, ci aspettavamo un’offerta da qualcuno. Eravamo convinti che lui fosse responsabile per le morti sul lavoro, che fosse uno che contava per il capitale e quindi pensavamo di avere su di lui diritto di vita e di morte ». Per questo i brigatisti trattarono Taliercio in maniera inumana. Lo lasciarono per giorni senza cibo, lo picchiarono e lo torturarono, al punto che quando fu ritrovato il cadavere era così magro e rannicchiato che occupava meno della metà dello spazio del bagagliaio di una Fiat 128. Taliercio nei giorni precedenti il suo rapimento, il 20 maggio 1981, aveva appena dato le dimissioni da direttore del Petrolchimico e aveva iniziato a parlare di problemi di inquinamento a Marghera, argomento che morì con lui nel bagagliaio della Fiat. «Mi aveva telefonato perché aveva chiesto il trasferimenot - racconta l’ex controller di Montedison Giorgio Malagoli - aveva però deciso di restare al suo posto in attesa del suo successore ». Lo aveva fatto anche se era nervoso da tempo: il vicedirettore del Petrolchimico Sergio Gori e il commissario Alfredo Albanese che indagava proprio sulla morte di Gori erano stati uccisi da poco più di un anno e lui temeva di essere il prossimo bersaglio. «Avevamo deciso di rapire Taliercio perché non aveva scorta, sapevamo dove viveva e tornava sempre a casa a pranzo », continua Francescutti. «Non c’erano altri perché, non ci aspettavamo nemmeno la reazione degli operai della Montedison». I sindacati infatti portarono in Corso del Popolo, la via principale di Mestre, duemila lavoratori che chiedevano la liberazione del loro direttore. La notizia del rapimento poi sparì rapidamente dai giornali per lasciare posto a Giovanni Paolo II e per tuffarsi nella drammatica vicenda di Alfredino Rampi, nel pozzo di Vermicino. «Nel giorno del suo rapimento Taliercio fu abbandonato da tutti e i suoi familiari liquidati come testimoni scomodi di una storia troppo complessa e dolorosa che invece va raccontata», conclude Piero Corsini capo del progetto «La storia siamo noi». Alessio Antonini (Corriere della Sera 6 luglio 2010)
|