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Se il terrorismo è un mestiere da tramandare Sbaglia chi si sorprende. Abbiamo troppo la tendenza a pensare che almeno il figlio potrebbe essere diverso dal padre. Ma la domanda vera da porsi è questa: perché mai il figlio dovrebbe essere diverso dal padre? I figli sono spugne: assorbono il clima di casa - tutto: parole, atteggiamenti, senso della vita -, quindi rilasciano quanto hanno assorbito. Chi ha respirato odio, rilascia odio. È molto difficile, quasi un miracolo, che avvenga il contrario. Può avvenire solo un processo di reazione totale, uguale e contraria come nelle leggi fisiche: succede quando un figlio viene compresso oltre il sopportabile da un’educazione esasperatamente rigida, bacchettona, farisea. Allora sì: può essere che da una famiglia così sbocci un figlio completamente opposto, ribelle e anarcoide, insofferente per partito preso. Ma se vogliamo essere molto precisi, scopriamo che in fondo il processo è sempre lo stesso: anche in questo caso ha assorbito comunque odio, sotto forma di incomprensione, muro contro muro, e immancabilmente rilascia odio. Piccoli brigatisti crescono. All’ombra del padre Piero Morlacchi, tra i soci fondatori delle Br, già morto da tempo, si sta facendo le ossa un degno erede. È legittimo parlare di arte familiare. Pure la madre, stesso ramo, stessa filosofia e stessi valori: Heidi Peusch, tedesca, risulta associata al marito anche nelle attività extraconiugali. L’altro figlio, uguale: si chiama Ernesto, nel giugno scorso finisce indagato in un’inchiesta sul gruppo che prepara l’attentato al G8. Perché allora stupirsi se Manolo fa suoi gli insegnamenti, i sogni, l’odio tettati dal biberon? Stupirebbe molto di più, riconosciamolo, se coltivasse ambizioni da tronista o se stesse partendo per le missioni africane. Ci sono tradizioni di famiglia che restano addosso come una seconda pelle. Oltre tutto, Manolo ne è dichiaratamente fiero. Ci ha scritto sopra un libro, dal titolo romantico e programmatico: «La fuga in avanti - La rivoluzione è un fiore che non muore». Nel volume, Manolo racconta la storia della famiglia, giunta alla terza generazione, in un certo modo paradigmatica, del movimento operaio italiano. Il bombardamento di Milano nel ’44, il quartiere popolare del Giambellino, il nonno partigiano e i suoi dieci figli. Tra questi, il padre di Manolo, noto come Pierino, che negli anni ’60 comincia a non quagliare più con la linea pantofolaia del Pci e gradualmente si avvia per la tangente, verso la derivazione nefasta che porta alla fondazione delle Br. Manolo, nato nel ’70, rievoca quei tempi come una magica epopea. Molti suoi coetanei invidiano le fughe in Riviera di mamma e papà sulla Lambretta, sapore di sale sapore di mare, lui si commuove al pensiero di Curcio che può tenere comizi al Giambellino con un servizio personale di guardia armata, la polizia accucciata a debita distanza. L’agenzia Ansa riporta le parole fiere di Manolo sul tema: «Esiste una sola storia della lotta armata in Italia, e mio padre ne fece parte appieno, dal 1970 a quando uscì di prigione nel 1986». Quindi, l’orgoglio di figlio: «Mio padre rimase impermeabile a ogni tentativo di alleggerire la propria condizione di prigioniero, senza cercare le scorciatoie della dissociazione o l’infamia del pentitismo». Un mito paterno, un’infanzia trascorsa visitando i genitori nelle carceri speciali d’Italia, per mano agli zii che ne hanno l’affidamento: su queste basi, Manolo costruisce la propria carriera politica. Si assorbe lotta armata, si rilascia lotta armata: i figli sono spugne. Questa saga dei Morlacchi non è neppure l’unica. L’anno scorso, proprio di questi tempi, l’Italia registra anche quella dei Ferrandi: il padre Mario, detto «coniglio» per i dentoni alla Ronaldinho, che nel ’77 spara assieme ai compagni contro la polizia, durante una manifestazione, uccidendo il vicebrigadiere Antonino Custra, e trent’anni dopo il figlio Valerio, che colleziona denunce per okkupazioni varie e alla fine viene arrestato con quattro borse piene di mazze, spranghe, chiavi inglesi, poco prima di partecipare ad una manifestazione milanese dei centri sociali. Siamo alla discendenza dinastica della rivoluzione armata. Questa magnifica nazione non si risparmia nulla. La custodisce nel proprio Dna, questa tendenza a replicarsi per via domestica. I notai vivono nel terrore che i figli vogliano partire per il giro del mondo in barca a vela o si mettano in testa di aprire un allevamento di struzzi: a chi lasciare, nella drammatica eventualità, il prestigioso dominio delle carte bollate? I farmacisti, non ne parliamo: se qualche estraneo si mette di traverso, sono pronti a barricarsi oltre il bancone, brandendo siringhe infette, per difendere il diritto naturale a cedere il feudo agli eredi naturali. Persino l’impiegato di banca è disposto a pre-pensionarsi, ponendo come condizione l’assunzione del figlio al suo posto. Nel nostro recente passato ci sono persino enti e istituzioni che prevedono nello statuto il passaggio della scrivania dal genitore all’erede. Per una volta, sorvoliamo sulla politica... Arti e mestieri, di padre in figlio. Dagli orefici fino ai camorristi, nel bene e nel male vantiamo una gloriosa tradizione di strenua difesa del patrimonio familiare. Spesso definiamo il fenomeno con un termine vagamente indispettito: nepotismo. Quando vogliamo usare un eufemismo positivo, perché magari ci tocca direttamente in casa, usiamo la poetica immagine dei figli d’arte. Ora apprendiamo di averli anche nel settore terrorismo. Ci mancava. Cristiano Gatti (Il Giornale, 19/01/2010)
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