Due borse, due bombe e la nuova tesi su
Valpreda e Pinelli...
«Sì, due borse. Lo scriva. Così la finiamo ».
È la frase che Silvano Russomanno, l'alto dirigente del Sisde che la sera del
12 dicembre 1969 andò a Milano per gestire le indagini, dice a Paolo
Cucchiarelli, il giornalista dell'Ansa che da dieci anni lavora all'inchiesta di
oltre 700 pagine che oggi Ponte alle Grazie manda in libreria - titolo: «Il
segreto di piazza Fontana», - e che il Corriere ha potuto leggere in bozza.
Due borse, due tipi diversi di esplosivo, e quindi due bombe. Una portata in
piazza Fontana dall'anarchico Pietro Valpreda. E una - predisposta e collocata
dai fascisti - che fa esplodere anche l'altra, con una duplice conseguenza:
causare una strage, e addossarla politicamente all'estrema sinistra. «Sebbene la
bomba di Valpreda non dovesse, nei suoi piani, fare vittime, la sua
corresponsabilità finì per inchiodare al silenzio lui e tutta la sinistra,
abbarbicandola a una difesa politica che con il tempo ha trasformato un segreto
in un mistero».
LE FONTI
Oltre ai colloqui con Russomanno, Cucchiarelli fonda la sua tesi sugli
incontri con Ugo Paolillo, il magistrato che per primo indagò sulla strage.
Sulla testimonianza di un neofascista rimasto anonimo. Sulle carte dell'ufficio
affari riservati del Viminale, solo in parte utilizzate nelle inchieste e nei
processi. E sulla controperizia del generale Fernando Termentini, esplosivista
che fornisce riscontri alle ipotesi formulate nel libro. Fondamentale poi
l'inchiesta di Salvini che il libro sviluppa descrivendo gli ostacoli frapposti
al magistrato milanese.
LE DUE BOMBE
Nel salone della Banca nazionale dell'Agricoltura fu ritrovato uno spezzone
di miccia a lenta combustione. Subito dopo la strage, un rapporto della
direzione di artiglieria sosteneva che anche a Roma, alla Bnl di via Veneto, era
stata utilizzata una miccia. Eppure, nel suo primo rapporto datato 16 dicembre,
il Sid cita il timer e solo il timer, dando il proprio sigillo all'idea di una
strage per errore, sostenuta nel tempo da Taviani e da Cossiga.
«Il timer, caricato prima dell'esplosione, dava modo di costruire il mito
della strage preterintenzionale; la miccia invece consentiva al massimo pochi
minuti di ritardo tra l'accensione e lo scoppio, e decretava che chi aveva
deposto la bomba sapeva, vedendo tutte le persone accanto a sé, che avrebbe
sterminato tanti innocenti». I timer usati il 12 dicembre erano timer
particolari, a deviazione: «L'ideale per costituire una vera e propria
trappola».
Poiché erano gli unici con le manopole e i dischetti conta-minuti
intercambiabili. Scrive il libro che Franco Freda si procurò timer in deviazione
sia da 60 che da 120 minuti: «Se Freda avesse montato una manopola da 120 su un
timer che avrebbe corso solo per 60 minuti, chi doveva deporre la bomba avrebbe
immaginato che sarebbe esplosa a banca ormai deserta».
LE DUE BORSE
Tra i reperti individuati dal perito Teonesto Cerri, il primo a entrare nel
salone devastato della Banca, c'erano frammenti del materiale di rivestimento e
frammenti della struttura metallica: «Entrambi indicano che in quel salone sono
esplose due borse». Una di similpelle nera, marca Mosbach&Gruber, e una di cuoio
marrone. Ma quest'ultima borsa «scompare». Forse per un errore dei magistrati
che aprirono la pista nera: «Tutto fu condizionato dalla scoperta che il 10
dicembre 1969 a Padova, la città di Freda, erano state vendute quattro borse
Mosbach&Gruber, dello stesso modello ritrovato alla Commerciale», dove il 12
dicembre fu scoperta una bomba inesplosa.
«Tutte in similpelle». I magistrati che puntavano a incastrare i fascisti
Freda e Ventura cercarono in ogni modo di ravvisare nei reperti proprio quelle
quattro borse. «Alessandrini e Fiasconaro avanzarono il dubbio che potessero
esserci state due borse e due bombe; tuttavia, condizionati dall'acquisto di
Padova, scartarono l'ipotesi».
I DUE ESPLOSIVI
Il perito Cerri identificò subito la presenza di nitroglicerina e di
binitrotoluolo, tipico degli esplosivi al plastico. Più tardi, nel determinare
con il collegio dei periti il tipo di esplosivo più probabile, si concentrò su
due gelatine dinamiti. In sintesi: «In piazza Fontana abbiamo due borse con due
bombe. Nella prima, accanto alla cassetta con candelotti e timer, è stato
collocato un detonatore esterno. La seconda bomba fu attivata non con un timer
ma con un accenditore a strappo, che ha dato il via a una miccia. Grazie al
detonatore esterno aggiunto alla prima borsa, la seconda bomba per simpatia fa
esplodere anticipatamente anche l'altra: creando una devastazione di potenza
doppia».
Ma chi avrebbe messo le due bombe? «Le due bombe furono poste da gruppi
diversi. La prima - che doveva esplodere a banca chiusa, come fatto dimostrativo
- fu collocata da mano anarchica ma 'teleguidata' da Freda e Ventura; la
seconda, che doveva trasformare la prima in un'arma letale, fu predisposta e
sistemata da mani fasciste. Ma tutto fu calcolato perché la firma risultasse
inequivocabilmente di sinistra".
IL RUOLO DI VALPREDA
La «mano anarchica» sarebbe proprio quella di Pietro Valpreda. «Il 12 dicembre
furono due i taxi sospetti che arrivarono in piazza Fontana. Sul primo c'era
Valpreda, anarchico con ambigue amicizie tra i fascisti romani»; e c'era
Cornelio Rolandi, il tassista che lo riconobbe.
«Sull'altro taxi c'era un uomo di destra che a Valpreda rassomigliava molto.
Tutto, attraverso i depistaggi, fu predisposto perché il taxi diventasse uno
solo, come una sola doveva essere la bomba». Il libro ipotizza che l'uomo del
secondo taxi possa essere Claudio Orsi, amico di Freda (una foto mostra la
somiglianza con Valpreda).
Era stata la difesa dell'anarchico a parlare per prima di un «sosia». In
genere, però, la versione di Valpreda appare costellata di bugie: il libro
sostiene che l'anarchico ha mentito sul suo pomeriggio del 12 dicembre, sulla
sua fantomatica influenza, sul viaggio a Roma, sul cappotto datogli dai parenti
subito dopo la strage per cambiare immagine in vista di un possibile arresto.
«Tutte le bugie profuse da lui e dai suoi parenti portano a ritenere che
Valpreda abbia collocato la sua bomba a piazza Fontana».
I MANIFESTI ANARCHICI
Il libro riporta la foto inedita di uno dei manifesti trovati il 12
dicembre, «ricalcati» sui manifesti del Maggio francese: «Parte del piano
studiato da servizi segreti per attribuire la strage alla sinistra», e in
particolare a Giangiacomo Feltrinelli. Il magistrato Paolillo si ricorda bene
del manifesto. Ricorda anche di averlo autenticato, e testimonia che fin da
subito c'era chi aveva capito che la provenienza di quei manifesti era di
destra, legata all'Oas e all'Aginter Press. Capo militare dell'Aginter era Yves
Guérin-Sérac, tra i fondatore dell'Oas, citato nell'informativa del Sid del 16
dicembre come mente degli attentati, ma definito «anarchico».
L'incaricato alla diffusione di manifesti e volantini anarchici era a Milano
Pino Pinelli, scrive il libro, ipotizzando che fossero proprio questi i
manifesti trovati dal capo dell'ufficio politico Antonino Allegra addosso a
Pinelli.
IL RUOLO DI PINELLI
L'alibi di Pino Pinelli per il 12 dicembre - sostiene il libro - non regge.
Pinelli tace sull'incontro con Nino Sottosanti, uno degli estremisti di destra
infiltrati nei circoli anarchici; mentre «racconta un incontro con i due
fratelli Ivan e Paolo Erda, che non esistono». Nella notte in cui cade nel
cortile della questura, Pinelli è sotto torchio non per piazza Fontana, ma per
altre bombe. Quelle del 25 aprile, di cui Antonino Allegra gli chiede conto,
attorno alle 23 e 30, citando come fonte altri anarchici, informatori della
polizia. E altre due bombe presto scomparse dalle inchieste, trovate quel 12
dicembre a Milano, presso una caserma e il grande magazzino Fimar di corso
Vittorio Emanuele. Il libro ipotizza che Pinelli avesse «qualcosa di ben preciso
da nascondere: il fatto che quel 12 dicembre si era mosso per bloccare le due
bombe milanesi 'scomparse' che gli anarchici avevano preparato ».
LA CADUTA
Cucchiarelli riporta la testimonianza di Antonino Allegra al direttore
dell'ufficio affari riservati Federico Umberto D'Amato - divenuta accessibile
nel 1997 però «mai rivelata ai magistrati e mai presa in considerazione finora
in un'inchiesta» -, secondo cui Pinelli era caduto di spalle. Testimonianza che
il libro incrocia con una delle ricostruzioni esaminate dal magistrato
D'Ambrosio, prima di approdare alla conclusione del malore attivo: «Un atto di
difesa in direzione sbagliata, il corpo che ruota sulla ringhiera e precipita
nel vuoto».
La posizione di spalle spiegherebbe il dettaglio delle suole delle scarpe -
l'ultima immagine di Pinelli che tutti i testimoni ricordano -, l'assenza di
slancio e la caduta radente al muro, dinamica confermata dal giornalista
dell'Unità che assiste alla scena dal basso. E il gesto di difesa, ipotizza il
libro, potrebbe essere stato compiuto nei confronti di Vito Panessa, il
brigadiere che andava incalzando Pinelli sulle altre bombe; «colui che nelle
testimonianze ai processi si inceppò, contraddisse, ingarbugliò in maniera più
marchiana».
Aldo Cazzullo ("Corriere della Sera", 28 maggio 2009)