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La ricostruzione dell’ex direttore del giornale di Lc Giampiero Mughini ha in casa una cartellina intitolata «La confessione di Sofri». Dentro c’è il ritaglio dell’articolo che il fondatore di Lotta continua ha pubblicato sul Foglio un anno fa, e che Mughini considera «la sconcertante e drammatica prima puntata di una parziale 'confessione' sul come sono andate le cose a via Cherubini», la strada milanese dove fu assassinato il commissario Calabresi. Ma Sofri, scrive Mughini, «rimane in debito con la verità». Ed è Sofri il vero destinatario del libro che Mondadori manderà in libreria la prossima settimana, Gli anni della peggio gioventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione. Un libro che è una requisitoria durissima contro Lotta continua, fatta da un giornalista che — pur non partecipando alla fattura — i settimanali di Lc li ha diretti. Quell’articolo del 2008, Mughini lo traduce così: «Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi, ma non ne era stato il responsabile, non era stato quello che l’aveva decisa e ordinata». Eppure si addossa tutta intera la storia della sua organizzazione, al punto da definire «non malvagi» e anzi «mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime» gli autori dell’omicidio Calabresi. Deduce Mughini che «se uno spende parole talmente impegnative nei confronti di chi uccise Calabresi, vuol dire che li conosce per nome e cognome e curriculum». La ricostruzione di Mughini comincia a Pisa, il 13 maggio 1972, il giorno del comizio di Sofri al termine del quale Marino avrebbe ricevuto il mandato a uccidere. Mughini quel giorno c’era. E, scrive, «non è vero che a comizio concluso sarebbe stato assolutamente impossibile, a causa della pioggia battente, bivaccare ancora un po’ in piazza». Perché «la pioggia in quel momento era finita». «C’era stato, lo dico in via di ipotesi, il tempo perché almeno un attimo si incontrassero» Sofri e Marino. Anche perché «non è vero quel che ha sostenuto con veemenza la difesa, che i bar pisani fossero chiusi quel pomeriggio del 13 maggio. Non lo erano affatto». In ogni caso, Mughini precisa: «Io non reputo che Sofri abbia dato l’ordine di uccidere. O più precisamente non lo reputo provato. Che è poi la sola cosa che conta». E chiede al presidente della Repubblica di dargli la grazia. Ma non rinuncia a denunciare un’ipocrisia collettiva. Ricorda di aver provato, alla notizia della morte di Calabresi, «orrore che lo avessero fatto dei 'compagni', cosa di cui non dubitavo allora e di cui nessuno in Italia ha mai dubitato veramente»; eppure «è lunga la fila di intellettuali e giornalisti convinti della colpevolezza di Lc, che non aprono bocca per non disturbare la platea dei loro lettori di sinistra». E denuncia quello che definisce il «fanatismo innocentista», «una Grande Bugia e una Grande Ipocrisia che non hanno alcun fondamento nei fatti processuali e nelle relative sentenze». I suoi bersagli polemici sono illustri. Luigi Manconi: «Non ho dubbi, Manconi lo ha saputo da subito come andarono esattamente le cose nel maggio 1972». Carlo Ginzburg: «La tesi secondo cui la confessione di Marino sarebbe stata concertata da magistrati e carabinieri è talmente risibile che in un processo di qualsiasi altro tipo non sarebbe stata presa in considerazione dai giornali e dall’opinione pubblica neppure cinque minuti. Ancor più risibile la tesi che le sentenze dei giudici di primo grado e poi d’appello fossero animate da una sorta di spirito di 'vendetta' contro quelli di Lc, personaggi di cui all’alba dei Novanta non si ricordava più nessuno». Antonio Tabucchi, che «si è dato a recitare sgangheratamente la parte che era stata di Emile Zola nell’'Affaire Dreyfus'». Gad Lerner, cui Mughini rimprovera una frase detta in tv — «Lotta continua non c’entrava proprio niente con la violenza dei Settanta» —, mentre «quelli di Lc nel 1972 nella violenza e nella sua apologia c’erano dentro fino al collo, ne erano ebbri». Ma l’interlocutore resta comunque Sofri. Per cui Mughini ha parole di stima e affetto, ma ha anche parole severe («lasciamo stare l’argomento ripetuto da tanti, 'lo conoscevo, non può averlo fatto'. È un argomento che vale niente»), anche a proposito del suo ultimo libro, La notte che Pinelli, in cui «un po’ crede e un po’ ammicca» a «inumane panzane» sulla morte dell’anarchico. Compresa «l’evocazione di una macelleria sudamericana da contrapporre simbolicamente al lutto e al pudore di cui traboccava il recente e fortunatissimo libro di Mario Calabresi. Un libro che per gli ex di Lotta continua è stato uno schiaffo in volto più violento che non una sentenza di tribunale». Gli «anni della peggio gioventù» rivivono attraverso la reazione euforica di Lc all’assassinio in Argentina del dirigente Fiat Oberdan Sallustro. L’arresto di Maurizio Pedrazzini sulle scale della casa milanese del missino Servello, in pugno una pistola proveniente dalla rapina a un’armeria raccontata ai giudici da Marino. Le telefonate dei compagni in casa Sofri, il giorno dell’arresto: «È Marino che ha parlato?». Le «vanterie» di Chicco Galmozzi, ex Lc, rivolte ai brigatisti: «Mentre voi ancora bruciavate macchine, noi sparavamo a Calabresi». E quella scena terribile, la vedova che esce dall’obitorio dove ha riconosciuto il cadavere del marito, e viene accolta da estremisti di sinistra che la scherniscono, con il fratello che le copre la testa dicendo di non ascoltare. «Un’immagine che mi porto appresso da tanti anni — scrive Mughini —, l’immagine che ha fatto scattare l’idea di scrivere questo libro. Qualcosa che attiene a un debito. Perché quelli che schernivano Gemma Calabresi erano comunque i miei compagni di generazione». Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 15 maggio 2009 )
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