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Un anonimo appartamento di Lucento fu la prima base dei terroristi TORINO 28/03/2009 - Al momento di firmare l’atto di compravendita dal notaio, Filippo Masciovecchio, non conosceva la storia dell’alloggio che andava ad acquistare. Camera, bagno e cucina, quanto basta per un operaio di trentaquattro anni, nella tranquillità residenziale di Lucento. Quarto piano, senza ascensore, al 90 di via Pianezza. Di quello che era stato, a metà degli anni settanta, il primo covo della colonna torinese delle Brigate Rosse, Filippo non ne sapeva nulla. «Forse l’avrò letta da qualche parte la storia delle Brigate Rosse, ma che il primo covo della colonna torinese fosse proprio casa mia non lo sapevo – commenta. In questo condominio gli inquilini sono cambiati tutti negli ultimi anni e non credo che nessuno si ricordi ancora di questa storia». Più o meno la stessa reazione stupita di tutto il vicinato nell’apprendere che all’alba del 30 aprile del 1975, in quello stesso alloggio, facevano irruzione gli agenti della polizia politica guidati dagli uomini dell’Ispettorato antiterrorismo. Da giorni tenevano d’occhio il palazzo, fingendosi tecnici dell’Enel. Insieme ad un collega, il maresciallo Rosario Berardi bussava quella mattina alla porta di Tonino Loris Paroli, detto Pippo, e Arialdo Lintrami. Scoprendo uno dei covi della colonna torinese delle Brigate Rosse. Il primo alloggio acquistato con i soldi di rapine e sequestri, poco lontano dalla periferia. La nuova strategia di Curcio, Franceschini e compagni partiva proprio da quell’appartamento affidato a Paroli. Comprato e non più affittato, da due giovani talmente anonimi da non destare alcun sospetto nei vicini di casa. Fin troppo sospetti, invece, per gli uomini dell’antiterrorismo che, piazzati quattro agenti al catasto, s’erano messi sulle tracce di giovani insospettabili che, proprio in quel periodo, acquistavano casa a Torino. Dicevano d’essere rappresentanti, Tonino e il compagno. I vicini di casa, come è ancora oggi nel quartiere, non sono mai stati di quelli troppo impiccioni. Ma attenti osservatori, quello sì. «Escono presto la mattina, attorno alle otto e mezza, e tornano a casa presto la sera. Mai che facciano baccano o invitino qualcuno» raccontarono agli investigatori, non sapendo di rivelare il segreto dei due brigatisti. Furono proprio quelle abitudini troppo calcolate, quella morigeratezza nei costumi e le abitudini borghesi a farli cadere in trappola. Agli occhi dei vicini fingevano d’essere due rappresentati. In un quartiere “dormitorio” come Vallette o Falchera, avrebbero dato nell’occhio e i ritmi di lavoro, quelli dell’organizzazione, non potevano coincidere con i turni degli operai. Meglio fingersi liberi professionisti, con orari regolari. La soluzione per la svolta delle indagini passava da quei particolari, portando la polizia dentro il covo di via Pianezza 90. Accanto ai nastri di Fabrizio De Andrè, le calibro 22, le 7,65 e un mitra Mas, anche lo schedario che avrebbe fatto da prologo all’attacco al cuore dello Stato. I nomi delle vittime designate. Tra questi anche quello del maresciallo medaglia d’oro della Polizia di Stato e del collega che li avrebbero sgominati.
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