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La lettera di cesare Battisti al Supremo Tribunale Federale Eccellentissimi Ministri del Supremo Tribunale Federale Signori Ministri, mi permetto di rivolgermi alle Vostre Eccellenze con la convinzione del fatto che per la prima volta posso avere l’opportunità di essere ascoltato appieno dall’alta Corte di questo paese, anche per esporre le ragioni per le quali mi è stato impedito di difendermi in modo adeguato nelle precedenti occasioni in cui sono stato giudicato. Voglio dire la verità sul mio caso e chiarire gli episodi relazionati alle terribili accuse lanciate contro di me. Non ho mai avuto la possibilità in Italia di difendermi. Mai un giudice o un poliziotto mi ha fatto una sola domanda sugli omicidi commessi dal gruppo a cui appartenevo, i Pac, Proletari armati per il Comunismo. Mai la giustizia italiana ha ascoltato la mia testimonianza. Mai un giudice mi ha chiesto: “lei ha ucciso?” (il motivo, semplicissimo, è perché era latitante, ndr). Oggi, trenta anni dopo, per la prima volta nella mia vita ho l’occasione di spiegarmi davanti ad una giustizia, la giustizia del Brasile. E credo sinceramente nella serietà e nella coscienza di questa giustizia. Ringrazio molto le Vostre Eccellenze per la disponibilità, Signori Ministri, di ascoltare la mia parola. Sono cresciuto in una famiglia comunista molto militante. Mio padre e i miei fratelli mi hanno portato molto giovane all’azione politica. A dieci anni mio padre già mi portava a scandire slogan di rivolta nelle strade. Ma a diciassette anni ho capito che l’uomo il cui è ritratto era appeso in casa era Stalin e l’ho buttato dalla finestra. Questo aprì una crisi politica con mio padre e lasciai la mia famiglia per unirmi alla strada con le centinaia di migliaia di persone in rivolta dal ’68 contro il binomio della politica italiana: “Democrazia Cristiana-Partito Comunista Italiano, DC-PCI”. Appartenevo all’epoca ad un gruppo di giovani autonomi che viveva in una comunità. Erano militanti non armati. E’ altresì vero che per finanziare la nostra attività militante, volantini, ecc. raccoglievamo risorse attraverso i furti. Per abbellire questi delitti che sono stati estremamente numerosi in questa epoca in Italia tutti i giovani chiamavano queste azioni non “furti” ma “espropri proletari”. E devo confessare che io detestavo queste azioni semplicemente perché avevo paura. Questa paura è continuata durante tutta la mia militanza, un tema su cui tornerò. Fu a causa di una di queste “espropriazioni proletarie” che venni incarcerato per la prima volta ma realmente ciò fu dovuto alla nostra vita di militanti senza soldi. In prigione ho incontrato un uomo più anziano, Arrigo Cavallina, appartenente ad un gruppo di lotta armata, i Pac. Non mi piaceva la sua personalità fredda e al tempo stesso febbrile ma mi impressionavano la sua cultura e le sue teorie rivoluzionarie anche se non capivo tutto ciò che diceva. Quando sono stato liberato nel 1976, sono tornato alla mia comunità: si era trasformata in un deserto. Alcuni compagni erano morti, morti per mano della polizia nelle manifestazioni. Gli altri erano devastati dalle droghe. A quell’epoca grandi quantità di droga a buon mercato furono distribuite massicciamente in tutte le grandi città per distruggere il movimento di rivolta. Immediatamente le consegne vennero sospese e tutti i giovani che erano caduti nella trappola dell’”eroina” si erano trasformati in fantasmi, in stato di “necessità”, preoccupati solo di trovare la droga e non più votati all’azione politica. Amareggiato da questo spettacolo feci il grande errore della mia vita: presi un treno per Milano ed entrai nel gruppo armato dei Pac. Senza comprendere a quel tempo che, anche là, sarei caduto in una trappola fatale. Il capo militare di questo gruppo era Pietro Mutti. Ma era importante anche Arrigo Cavallina. Ho descritto a lungo la strana personalità di Pietro Mutti nel libro che ho scritto in Brasile durante la mia fuga. “La mia fuga senza fine”. Questo lavoratore aveva avuto gravi problemi con la droga e ne era uscito grazie all’azione politica. Questo faceva di lui un fanatico, una vera macchina da guerra. Al di là del suo carattere molto timido diventammo amici. Ma Pietro Mutti mi supervisionava incessantemente per vedere se ero all’”altezza” e io cercavo di esserlo. I Pac erano specializzati in azioni sociali e nel miglioramento delle condizioni in carcere. Il gruppo commetteva regolarmente azioni di esproprio contro le banche per garantirsi il proprio finanziamento e anche azioni contro luoghi di “lavoro nero”, cioè lavoro senza carta di lavoro. Quello sì, io l’ho fatto. Tutto questo attivismo militante non l’ho mai negato. Pietro Mutti aveva sentito perfettamente la mia paura durante queste “azioni obbligatorie” che ho sempre detestato. Eravamo armati anche se una buona parte delle armi non funzionava. Avevo sempre paura che uno dei compagni sparasse ad una guardia della banca nel caso in cui questa guardia avesse alzato la mano con l’arma in pugno. Avevo sviluppato una tecnica per evitare questo timore: mi lanciavo a mani nude sulla guardia e la spingevo a terra di sorpresa. Perché sapevo che una volta a terra nessuno le avrebbe sparato. Ho fatto queste numerose volte. Racconto questa piccola storia che può sembrare aneddotica per assicurarvi, Signori Ministri, che non sono in nessun modo “un uomo sanguinario” come è stato scritto continuamente ma è vero il contrario. Vostre Eccellenze, potete anche chiedere informazioni ai miei fratelli Vincenzo e Domenico su come reagivo quando ero giovane mentre uccidevano un animale nella nostra piccola proprietà agricola, anche se era un pollo. Questa avversione al sangue non scema mai nella vita di un uomo. Anzi aumenta. E non ho mai ucciso né ho mai voluto uccidere nessuno. Voglio chiarire alle Vostre Eccellenze ciò che so sui quattro omicidi per i quali sono stato accusato in mia assenza con diverse accuse. Le accuse sono state che io avrei commesso gli assassini di Santoro e Campagna, che sarei stato complice nel caso della morte di Sabbadin e che avrei organizzato l’azione che uccise Torregiani, morto lo stesso giorno di Sabbadin. Sappiano, Signori Ministri, che sono stato arrestato nel 1979 con altri militanti clandestini e che sono stato giudicato in Italia nel primo processo dei Pac cui ero presente. Ci sono stati numerosi casi di tortura durante questo processo, con il supplizio dell’acqua ma io non sono stato torturato. In nessuna occasione durante questo processo mi hanno fatto una sola domanda in relazione agli omicidi. I poliziotti sapevano perfettamente che non li avevo commessi. Di conseguenza fui condannato nel 1981 per “sovversione contro l’ordine dello Stato” che corrispondeva a verità e che io non negai durante il processo. Sono stato condannato a 13 anni e 6 mesi di prigione, perché all’epoca le pene d’accordo con le allora nuove leggi d’urgenza venivano moltiplicate per tre per gli attivisti. Questo tempo fu poi ridotto a 12 anni. Il mio processo, l’unico vero processo al quale ebbi diritto in Italia fu così concluso. Mi trovavo in una delle “prigioni speciali” che erano state costruite per noi che venivamo definiti “terroristi”. Come prova del fatto che la giustizia italiana riconosceva in quell’epoca la mia innocenza riguardo alle accuse di omicidio, fui trasferito in un carcere per “coloro i cui atti non causarono morte”. Ma il procuratore Armando Spataro che capeggiava il sistema di torture nell’area di Milano, continuava a darmi fastidio e bloccò la mia corrispondenza con la mia famiglia. Seppi con tre mesi di ritardo da una visita di mia sorella che mio fratello Giorgio era morto in un incidente di lavoro. Lo choc per me è stato immenso. Quello e il fatto che ogni giorno nell’ora d’aria i prigionieri sparissero senza motivo, per ritornare in seguito mesi dopo abbrutiti e muti o addirittura senza far ritorno, mi fece prendere coscienza del fatto che le leggi per noi non sarebbero mai state normali. A causa di questo e solo per questo presi la decisione di fuggire. E non per “fuggire dalla giustizia” dato che il mio processo era terminato. Sono evaso il 4 ottobre del 1981 e lasciai fogli in bianco firmati ai miei vecchi compagni per il processo alla mia evasione. Me ne andai in Francia. Prima di andare, nel 1982, in Messico. E perché ignoravo completamente che la giustizia italiana stava muovendo un nuovo processo contro i Pac, questo famoso processo in mia assenza in cui sono stato condannato all’ergastolo. Appresi la notizia con stupore quando tornai in Francia, nella stessa data in cui seppi della morte di mio padre risalente a due anni prima. Questo fatto, la perdita di mio padre, fu più importante di qualsiasi decisione della Giustizia, poiché pensai che nessun giudice coscienzioso avrebbe potuto considerare con serietà un processo così. Devo ricominciare la mia storia nel 1978 quando ancora ero membro dei Pac. Chiedo scusa se mi sto prolungando, Signori Ministri, ma è la prima volta, ripeto, che posso spiegarmi davanti ad una giustizia degna di questo nome e desidero dire alle Vostre Eccellenze tutto ciò che so. Nel maggio del 1978, appresi, come tutti gli italiani e il mondo intero del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. Guardavo con orrore questa immagine del portabagagli dell’auto in televisione e posso dire che quel giorno diventai un altro uomo. C’è nella mia vita un “antes Aldo Moro” e un “post Aldo Moro”. Quel giorno sentii due cose: l’orrore che quell’azione mi ispirava e la nausea di fronte a tutto quel sangue schizzato da tutte le parti. Compresi anche che l’uso delle armi era una trappola nella quale l’estrema sinistra era caduta. Quel giorno decisi di rompere con la lotta armata definitivamente. In tutta Italia la morte di Aldo Moro suscitò enormi discussioni in tutti i gruppi armati. Per quanto riguarda i Pac decidemmo per una nuova parola d’ordine, in base alla quale saremmo stati armati per difenderci ma mai per attaccare le persone. Stupidamente mi tranquillizzai per questa decisione votata dalla maggioranza. Ma un mese dopo, nel giugno 1978, un gruppo autonomo dei Pac, diretto da Arrigo Cavallina e comandato da Pietro Mutti, senza consultare la totalità dei membri responsabili, uccise il capo degli agenti penitenziari, Santoro. Ci fu immediatamente una riunione, molto agitata, Pietro Mutti e Arrigo Cavallina difesero questo omicidio con grande vigore. Quello stesso giorno lasciai il gruppo come una buona parte dei vecchi membri che si opponevano ad ogni attacco contro le persone. Pietro Mutti divenne furibondo con me, mi considerava un traditore. Mi unii dunque a quello che era chiamato “un collettivo di gruppi territoriali”. Ugualmente armati ma non offensivi. Vivevo come molti altri clandestini in un vecchio edificio di Milano. Sapevamo quasi tutto quello che accadeva e che si diceva in quella città ed è così che all’inizio dell’anno 1979 abbiamo saputo che i Pac stavano preparando un’azione contro uomini di estrema destra che praticavano autodifesa, che andavano sempre armati (una specie di milizia). Io non sapevo quale era la persona presa di mira e non sapevo che realmente i Pac avevano deciso di uccidere due di questi giustizieri di estrema destra, Torreggiani a Milano e Sabbadin nella regione di Venezia (l’avere reagito a due rapine a mano armata, questo il motivo alla base dei due omicidi, nella spiegazione di Battisti al Supremo Tribunale Federale trasforma un gioielliere e un macellaio, le due vittime, in giustizieri “di estrema destra”, ndr). Volevo impedire queste azioni, sanguinose, stupide e controproducenti per la resistenza (per la storiografia la resistenza finisce il 25 aprile del 1945, con la fine della Seconda Guerra Mondiale. Per lo meno ardito definire “resistenza” il terrorismo degli anni Settanta, ndr). Un vero suicidio politico oltreché indifendibile. Chiesi autorizzazione, a nome del “gruppo territoriale”, di poter partecipare ad una riunione dei Pac a casa di Pietro Mutti. Vi andai con altri due compagni. Lì c’erano molti membri nuovi che non conoscevo e che avevano sostituito quelli che l’anno precedente se ne erano andati. Spiegai a Pietro Mutti e agli altri la stupidità e la follia del suo progetto. Molto rapidamente la riunione volse al peggio e il tono si alzò moltissimo. I membri del Pac dissero che io non avevo più diritto di dare il parere dato che non appartenevo più al gruppo e la riunione terminò con molta tensione. Io non sapevo chi doveva essere ucciso. Circa un mese dopo, o meno, seppi dai giornali che Torreggiani era stato assassinato e che durante un attacco una pallottola del revolver di Torreggiani aveva colpito il figlio giovane Alberto. Ricordo che rimasi di sasso sul marciapiede nel vedere il giornale. Seppi anche che un altro membro della milizia era rimasto ucciso nello stesso giorno nella regione di Venezia, Sabbadin. Rimasi scioccato e anche pieno di vergogna, molto scosso, perché io avevo fatto parte di questo gruppo che si era trasformato in (un commando ndr) assassino. E due mesi dopo, in aprile –ma non ricordo la data- un poliziotto della Digos, Campagna, morì anche lui. Il senatore Suplicy mi ha interrogato per sapere se avevo alibi nelle date di questi omicidi. Ma penso che possiate comprendere, Signori Ministri, che proprio perché non li ho commessi sono incapace di ricordare le date di questi crimini. Oltretutto vivevamo nascosti negli appartamenti e i giorni erano vuoti, interminabili e molto simili. Mi è impossibile ricordare 30 anni dopo dove mi trovavo in quelle date, sicuramente nell’appartamento che non lasciavamo mai. In seguito d’estate ci fu una grande operazione nel Nord dell’Italia e fui catturato con tutti gli occupanti del palazzo. Sì, è esatto che lì ci fossero armi ma la stessa giustizia italiana stabilì, attraverso una valutazione balistica, che erano nuove, che nessuna di queste era stata usata per sparare un solo tiro. Molti dei fatti che sto per raccontare non li ho vissuti, dato che stavo in Messico. Seppi di essi nel 1990 in Francia, quando fui informato del contenuto del secondo processo che cominciò con la detenzione di Pietro Mutti nel 1982. Seppi, in Francia, che Pietro Mutti era stato torturato e che si era costituito come “pentito”, che accettava collaborare con la giustizia italiana in cambio della sua libertà e di una nuova identità. Seppi che lui stava per essere accusato, sulla base di indagini della polizia, di essere colui che aveva sparato su Santoro e che mi accusò al suo posto. Durante questo lungo processo Pietro Mutti fece tante accuse che molte volte inciampò nelle sue dichiarazioni impossibili o contraddittorie. Per esempio per salvare la sua fidanzata ha accusato un’altra donna, Spina, di essere complice nell’attentato contro Santoro. Ma nel 1993 la giustizia fu obbligata a riconoscere l’innocenza di Spina e a liberarla. Non ho i documenti con me e devo dire che la scrittrice e ricercatrice francese Fred Vargas conosce molto meglio il mio processo di quanto non lo conosca io. Ma io so che nel 1993, la stessa giustizia ha percepito, a mio avviso per i suoi atti e le sue parole, che Pietro Mutti era “abituato ai giochi di prestigio” e che frequentemente dava il nome di una persona al posto di un’altra. A parte la tortura l’unica discolpa che si può dare a Pietro Mutti per essersi assoggettato a fare le sue terribili e false accuse è che seguiva una regola:proteggere gli accusati presenti gettando la colpa sulle spalle degli assenti come quando ha accusato Spina, fino a quando non si riconobbe la sua innocenza nel 1993. Mutti non è stato l’unico pentito accusatore. Voglio spiegare ai Signori Ministri che a quell’epoca, durante i processi negli anni di piombo, il sistema delle torture e dei “pentiti” fu utilizzato correntemente (guardare il rapporto di Amnesty International e della Commissione Europea) e con un’intensità specifica dal procuratore Spataro. Tutti sapevamo che era terribile avere Spataro come procuratore. Il sistema dei “pentiti” non funzionava sull’unica testimonianza di un solo uomo. Era necessario ottenere altre “testimonianze” di pentiti in modo che l’accusa fosse “ confermata” e sembrasse solida. Ci furono di conseguenza altri membri dei Pac che mi hanno accusato assieme a Pietro Mutti come Memeo, Masala, Barbetta, eccetera. Tutti erano pentiti o “dissociati” e tutti hanno guadagnato riduzioni di pena o libertà immediata o hanno evitato l’ergastolo. Così per esempio Memeo, quello che ha ucciso Torregiani e Campagna, Cavallina “l’ideologo” dei gruppi dei duri, Fatone, Grimaldi, Masala che hanno fatto parte del commando contro Torreggiani, Diego Giacomini che uccise Sabbadin. Tutti questi hanno ottenuto la loro libertà in cambio delle conferme (delle accuse ndr) di Pietro Mutti. Per quanto concerne la morte di Santoro ho già parlato della riunione che seguì e che decise la mia uscita dal gruppo. So solo che Arrigo Cavallina e Pietro Mutti difesero con ardore questo crimine durante quella riunione e che la polizia li accusava di averlo commesso. Non appartenevo più al gruppo quando furono commessi gli altri tre omicidi, di conseguenza le mie conoscenze precise sono limitate. Ma i media che mi accusano incessantemente di avere volontariamente “sparato su Torreggiani” e persino “di avere sparato su suo figlio” sanno effettivamente che questo è totalmente falso (Nessuno in Italia ha mai accusato Battisti di avere partecipato fisicamente all’azione ma di averla organizzata, ndr). La giustizia italiana ha riconosciuto che i quattro uomini del commando erano Grimaldi, Fatone, Masala e Memeo il quale sparò sul gioielliere. E fu anche la giustizia a confermare che il proiettile che ferì il figlio Alberto proveniva dalla pistola di suo padre (anche questo è risaputo in Italia, ndr). Credo che all’inizio Mutti mi accusò di questo crimine. Ma dal momento che mi accusava anche dell’omicidio di Sabbadin commesso lo stesso giorno a centinaia di chilometri (da Milano a Mestre la distanza è di circa 260 Km, percorribili in meno di tre ore di auto, ndr), disse che io ero “l’organizzatore”. Ho già detto ciò che accadde nella riunione quando tentati di impedire questa azione. Quanto a Sabbadin, Giacomini “vicecapo per la regione di Venezia” confessò di avergli sparato. Visto che Mutti in un primo momento aveva fornito il mio nominativo come “killer” mi trasformò, dopo le confessioni di Giacomini, nell’autista di supporto. Solo che nemmeno così funzionò dal momento che poi risultò che “l’autista” era una donna. Signori Ministri, non so nemmeno dov’è questa città in cui è stato ucciso Sabbadin (Mestre, ndr). In ultimo so che Mutti mi ha anche di aver sparato a Campagna. All’epoca non seppi nulla sulla preparazione di questo crimine, non più di quanto sapessi di Sabbadin. Ciò che so è che una testimone oculare descrisse l’aggressore come un uomo molto alto, di 1 m 90 mentre io sono 20 cm più basso. Il resto me l’ha spiegato la scrittrice e ricercatrice Fred Vargas: la balistica ha provato che il proiettile proveniva dall’arma di Memeo, lo stesso che sparò a Torreggiani. E che una testimone disse che le era parso di capire dalle parole di Memeo che era lui ad avere sparato. Ma questa testimone è forse un pentito e non ho la certezza sul responsabile della morte di Campagna. Non sono responsabile di nessuno degli omicidi di cui sono accusato Signori Ministri. Sono stato usato continuamente nel processo come un capro espiatorio per i pentiti. La prova migliore del fatto che dico la verità è che sono state prodotte delle false procure come ha comprovato la perizia grafologica, affinché gli avvocati Gabriele Fuga e Giuseppe Pelazza “ mi rappresentassero” nel processo in mia assenza. Perché? Di sicuro non per difendermi, di sicuro non per il mio bene, dato che sono stato condannato all’ergastolo. Ma certamente per trasformare l’accusa contro di me più accettabile e creare uno scenario favorevole per una pena più rigorosa. Fino a molto tempo dopo la farsa del processo io non sapevo che esistessero false procure. Questa scoperta la devo a Fred Vargas e alla mia avvocatessa francese Elisabeth Maisondieu Camus. E’ stata Fred Vargas che mi ha dato l’informazione quando venne a visitarmi in carcere in Brasile nel 2007. Un vecchio compagno (chi? Pietro Mutti? Bergamini? ndr) diede agli avvocati i fogli bianchi che avevo firmato nel 1981 prima della mia fuga. Due di questi fogli sono stati riempiti dopo, nel 1982, con “apparentemente la mia firma”. Fred Vargas mi ha spiegato che lo stesso testo, quello della vera procura che firmai nel 1979, venne copiato due volte e che i due testi sono sovrapposti in trasparenza dal momento che furono scritti con l’intervallo di due mesi, “datati” maggio e luglio 1982. Una perizia francese ha provato nel gennaio 2005 che le tre firme delle tre procure sono state apposte nello stesso momento e che, ad esempio, il testo della procura del 1990, ipoteticamente inviato dal Messico (ma la busta non esiste) fu dattilografato sopra una mia firma di 9 anni prima. La perizia ha provato anche che le date non sono state scritte di mio pugno così come quanto scritto nelle buste delle due prime “procure”. Quando i miei avvocati francesi hanno saputo questo lo hanno immediatamente comunicato nel gennaio 2005 al consiglio di stato francese. Hanno fatto questo perché la Francia non ha diritto di estradare un condannato in contumacia che non è stato informato del suo processo. Queste tre false procure hanno provato che io non ero stato informato (in caso contrario avrei scritto io stesso le procure). Purtroppo il Consiglio di Stato sottomettendosi alla volontà del Presidente Jacques Chirac si è rifiutato di esaminare la falsità delle procure. Accettarono l’estradizione affermando che “ero stato informato e rappresentato come se le procure fossero vere”. Subito i miei avvocati francesi presentarono la prova dei tre documenti falsi alla Corte Europea ma anche là fu inutile perché certamente per interferenza del governo francese come chiarirò di qui a poco, la Corte Europea chiuse gli occhi, ignorò la prova della perizia e sostenne che le procure erano vere. Il mio avvocato francese Eric Turcon mi ha informato a Brasilia che questa “Corte Europea” era costituita solamente da magistrati francesi molto legati a Jacques Chirac. Già solo questo fatto, Signori Ministri, prova che il mio processo italiano è stato falsato, essendo questo uno degli elementi riconosciuti dal Ministro Tarso Genro. E che l’approvazione del dell’estradizione dei tre Tribunali francesi e subito dopo della Corte Europea è sempre stata basata sull’esistenza di quelle procure che sono assolutamente false, cosa evidente anche ad un esame ad occhio nudo. Perché questi Tribunali, informati della falsificazione di questi documenti, si sono rifiutati di considerare questo punto di massima rilevanza? Il Segretario Nazionale della Giustizia del Brasile, Romeu Tuma Jr., sollecitato dal Ministro della Giustizia Tarso Genro, ha avuto l’opportunità di esaminare nel dettaglio i documenti presentati dalla storica e archeologa Fred vargas, durante un dialogo di due ore, in compagnia del senatore Eduardo Suplicy, documenti nei quali si evidenzia che c’è stata una falsificazione delle procure, in conformità con l’analisi tecnica riconosciuta ufficialmente fatta dalla responsabile per gli studi sulla grafologia in Francia, la signora Evelyn Marganne. Sarà molto importante che anche le Vostre Eccellenze possano esaminare con attenzione queste prove, che hanno contribuito molto per dare fondamento a quanto espresso nella decisione del Ministro Tarso Genro. Per questo motivo allego qui i documenti portati dalla ricercatrice Fred Vargas al Dottor Romeu Tuma Jr. e inoltrati al Ministro Tarso Genro, dal momento che mostrano l’evidenza della falsificazione delle procure e confermano le spiegazioni dettagliate dei giornali nelle conclusioni della Giustizia italiana riguardo il sottoscritto. Segnalo che tutti i testimoni raccolti che hanno raccontato che io avrei partecipato ai quattro omicidi sono stati beneficiati dalla “delazione premiata” con conseguente diminuzione delle loro pene e/o della loro liberazione. Il signor Walter Fanganiello Maierovitch afferma nei suoi articoli che la giustizia italiana non accetta la deposizione di un “pentito” che usi la delazione premiata se per caso non dicesse la verità. Comunque, la stessa giustizia italiana non ha invalidato la denuncia contro di me fatta da Pietro Mutti, nonostante le contraddizioni qui segnalate. Osservo anche che nell’intervista concessa da Pietro Mutti alla rivista Panorama sulla quale si è basata la “Rivista Veja” (il più importante settimanale brasiliano, ndr) per concludere che io sono colpevole dei quattro omicidi, a differenza di quanto si è dato a intendere non c’è una foto recente di Pietro Mutti. La foto pubblicata da Panorama è dei tempi in cui vivevamo assieme e le sue parole sono esattamente le stesse che pronunciò all’epoca della denuncia (Battisti lascia intendere che Panorama si è inventato l’intervista a Mutti perché non ha pubblicato una sua foto recente e perché questi ha confermato quanto già detto anni fa, aggiungendovi tra l’altro dei dettagli inediti “di colore”, ndr). Da parte mia sono disposto a confermare personalmente, di fronte alle Vostre Eccellenze, tutto quanto sto dicendo. Così come sono disposto ad affermare ai famigliari delle quattro vittime, occhi negli occhi, che non ho ucciso i loro cari. So che la giustizia del Brasile terrà conto di tutti gli elementi che, messi assieme, provano la mia innocenza e il modo tremendo con cui sono stato usato a mo’ di capro espiatorio durante questo processo pieno di così tanti errori in Italia. La collera sproporzionata di alcuni settori in Italia (ieri la Camera ha votato all’unanimità una mozione che non lascia dubbi sull’aggettivo “alcuni, ndr) discende, in gran parte, dal fatto che non vogliono o non gli conviene riconoscere che il mio processo fu totalmente falsato, come tanti altri di quello stesso periodo. Spero, Signori Ministri, che mi abbiate capito, nonostante l’attacco irrazionale e vergognoso di settori molto influenti di un paese – l’Italia – contro la mia persona. Sulla mia vita e sul mio onore posso affermare che ho sempre lottato contro la violenza fisica durante la rivolta italiana e che non ho mai attentato contro la vita delle persone. Questa è la verità, che nessuna prova ha smentito. Sollecito alle Vostre Eccellenze, Signori Ministri, di ricevere le espressioni del mio rispetto e della mia più alta considerazione. Cesare Battisti
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