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Morte accidentale di Pinelli Ci sono vicende di cui si è parlato talmente tanto da crederle «esaurite»; e che hanno segnato una generazione al punto da risultare estranee - o persino fastidiose - a chiunque non le abbia vissute in presa diretta. Di tutto ciò che ruota attorno alla morte di Giuseppe Pinelli - dalla strage di piazza Fontana all'uccisione del commissario Calabresi - supponiamo di conoscere tutto. Tutto, tranne una verità giudiziaria che sembra essere stata possibile solo per le sentenze che hanno condannato Bompressi, Pietrostefani e Sofri su indicazione di Leonardo Marino. In realtà il rischio è di aver dimenticato quasi tutto e di non riuscire più a comunicare alcunché a chi da quelle vicende non è stato attraversato. Giuseppe Pinelli è morto la sera del 15 dicembre 1969, precipitando da una finestra del quarto piano della questura di Milano. In quel luogo vi era arrivato tre giorni prima, col suo motorino, per un «colloquio informale», presto diventato interrogatorio di ora in ora sempre più pressante. Da «persona informata» a indiziato cui viene negato il sonno, a corresponsabile della strage del 12 dicembre, quella che pose fine all'innocenza del movimento nato nel '68, quella che - secondo le autorità del tempo - « era del tutto coerente con lo spirito e la tradizione anarchica». Fu per «vendicare» il ferroviere anarchico (o «fare giustizia») che tre anni dopo Luigi Calabresi venne ucciso. Tutto questo è noto e anche un ventenne di oggi lo sa (o può saperlo facilmente). Ciò che è andato un po' perso o che in molti non hanno mai saputo è il peso di queste vicende, il loro contesto, persino il senso delle parole spese allora. E un'infinita serie di «particolari» sulle inchieste svolte attorno alla morte di Pinelli che dicono moltissime cose sul rapporto tra i poteri in questo paese (quelli palesi - giudiziario, esecutivo, legislativo - e quelli occulti). E, forse rafforzano la convinzione che nessuna giustizia sia possibile in Italia quando di mezzo ci sono la politica e i suoi manovratori. Con La notte che Pinelli (appena uscito in libreria, edito da Sellerio) Adriano Sofri affronta tutto questo. Non lo fa da una posizione comoda, rinchiuso com'è da più di un decennio in una condanna che lo considera il mandante dell'omicidio Calabresi; con tutto il mondo mediatico a soppesare - e usare - ogni sua parola per decretarne il pentimento o l'irriducibilità a seconda di quanto faccia comodo l'una o l'altra cosa nelle contingenze della politica. E con il peso del protagonista del tempo, che cerca di raccontare a chi non «non sa la storia di ieri» ciò che fece e disse una generazione (e lui in essa). Eppur lo deve fare: per Pinelli («Devo pagare un debito nei suoi confronti»), per se stesso («Sono corresponsabile delle parole scritte e dette allora su Calabresi»), per amore di verità («È agghiacciante rileggere le carte dei processi»). E per una ragazza di vent'anni, «eletta» rappresentante di una generazione tanto lontana da quei fatti quanto da essi condizionata. A questa studentessa di giurisprudenza si rivolge per tutto il libro, in prima persona, perché raccontare a chi non sa (o sa pochissimo) serve anche a chi narra nella ricostruzione di eventi e interpretazioni. Come in una canzone del 1958, scritta da Calvino e musicata da Liberovici, un ex partigiano prova a narrare a una ragazza «dalle guance d'aurora» la sua vita all'età di vent'anni; quando «oltre il ponte in mano nemica», vedeva «l'altra riva, la vita». La vita di Giuseppe Pinelli finì attraverso una finestra, perché la strage doveva essere anarchica, perché il mostro-Valpreda era pronto per essere sbattuto in prima pagina, perché la politica romana pretendeva i colpevoli e prescindere dai fatti. Se piazza Fontana è il peggior trauma della storia repubblicana, la morte di Pinelli ne è il corollario: i due misfatti aprono una scia giudiziaria nutrita di falsità, approssimazioni, meschinità, bassezze. Sono le famose «deviazioni» che diventano il culto di una classe dirigente crudele e violenta quanto cialtrona. E se i processi per la strage alla Banca dell'agricoltura si susseguono in un progressivo reciproco annullarsi, se la pista anarchica si sgonfia dopo qualche anno ed emerge la trama nera (impastata con quella di stato), le indagini e le udienze per la morte di Pinelli rivelano ricostruzioni contraddittorie e farsesche (Dario Fo ne trarrà la memorabile Morte accidentale di un anarchico), per approdare al consueto nulla di fatto. In cui l'unica certezza - una trama che si dispiega fino a oggi - è che le questure sono tra i luoghi meno sicuri per un cittadino italiano. Ma in cui si svela anche quel bassissimo profilo di una classe dirigente (quella che occupa il «ponte», quella oltre cui c'era la vita intravista dalla generazione del '68) per cui lo stato è principalmente un luogo d'interesse privato, un'entità tenuta in piedi da manovre di ogni tipo pur di garantire l'ordine e gli interessi costituiti. Anche violando le leggi dello stato. Di esempi, nelle carte attraverso cui Sofri ricostruisce le inchieste sulla morte di Pinelli, se ne trovano fin troppi: bugie e rapporti paradossali, collusioni e veleni: un miscuglio che sarebbe persino ridicolo, non fosse agghiacciante. Così che la conclusione del libro è lapidaria. Alla domanda della ragazza, «Cosa pensi sia successo quella notte al quarto piano della questura?», Sofri risponde «Non lo so». Perché l'unica cosa che sa è che Pinelli non si è suicidato né è stato un «malore attivo» (che significhi poi non è riuscito a spiegarlo nemmeno l'inventore del termine) a «lanciarlo» nel vuoto. Perché conosce la verità politica di una morte da altrui provocata, ma non quella giuridica che deriva dalla ricostruzione dei fatti: tanto hanno fatto che è impossibile trovarla, la verità, nei processi «politici» dell'Italia dei «misteri». Questo ci fa intendere Sofri, parlando di Pinelli, ma - forse - anche di sé. E qui comincia un altro libro dentro il libro. È quello sulle parole, sul loro significato che fa i conti col tempo, sul loro uso, cioè sulla comunicazione. È la parte che va oltre Pinelli, che narra come la sua morte ricadde sui ventenni di allora, che si misura con ciò che essi dissero e fecero. E, tra essi, l'autore, Adriano Sofri. È la parte che ci spinge verso l'omicidio Calabresi, in cui il commissario passa da essere il corresponsabile della morte di Pinelli alla vittima di un altro delitto politico. È la parte che giornalisti e politici più guardano con cattivo interesse, per «scrutare» e «usare» con modalità dovrebbero far riflettere sul degrado raggiunto da queste due professioni (che pur sull'uso delle parole si fondano). Un giorno «pentito», un altro «irriducibile», questo si racconta di Adriano Sofri a proposito dell'omicidio Calabresi. E lui si arrabbia molto - come ha recentemente detto a Concita De Gregorio sull'Unità -, perché in fondo dice da anni la stessa cosa: che non è il mandante né il responsabile dell'omicidio Calabresi, che quello non fu un atto di terrorismo ma un assassinio politico, che si sente - invece - corresponsabile per le parole dette e scritte del clima di linciaggio in cui quell'omicidio maturò e avvenne. Corresponsabile, non pentito. Perché le parole hanno un peso ma non sono pallottole. Forse sono «pietre», probabilmente costruiscono cortocircuiti che producono misfatti, ma non ne sono la causa principale, perché pronunciate in un contesto preciso che contribuisce a farle nascere, in quel caso scagliate contro un opprimente coagulo di poteri. Di cui non si può ignorare l'invadenza fingendole «neutre» e «assolute». Come affermava nel 1998 Norberto Bobbio - citato da Sofri nel suo libro - a proposito dell'appello da lui firmato nel 1971 insieme a centinaia di intellettuali contro le mostruosità dell'inchiesta che ha finito per archiviare la morte di Giuseppe Pinelli, un testo in cui si denunciavano 'commissari torturatori, magistrati persecutori, giudici indegni': «Se tanti hanno firmato un appello che è indubbiamente una denuncia molto premente e violenta di quelle che sarebbero state le azioni di Calabresi, probabilmente a quel tempo c'erano delle ragioni per cui l'hanno fatto». E, poi: «Non ho nessuna difficoltà - proseguiva Bobbio - a chiedere scusa oggi del tono di quell'appello a coloro che hanno avuto ragione di sentirsene offesi, a cominciare dalla vedova Calabresi e dai suoi figli. Ciò non toglie che io continui oggi, come allora, a riconoscere nella strage di Piazza Fontana un episodio infame di cui dovrebbero chiedere scusa agli italiani non coloro che lo denunziarono e non furono ascoltati, ma i promotori, gli autori materiali e tutti coloro che hanno impedito sino a oggi di conoscere la verità». Gabriele Polo (Il Manifesto, 17 gennaio 2009)
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