Parla la vedova Pinelli: ``L`hanno colpito, creduto morto e
fatto volare dalla finestra``.
Anticipazione de L`espresso
ERA MIO MARITO – RIVELAZIONI-CHOC DELLA VEDOVA PINELLI: “L’HANNO COLPITO,
CREDUTO MORTO E FATTO VOLARE DALLA FINESTRA. SOLO CHI ERA LÌ PUÒ RACCONTARE LA
VERITÀ” – “CALABRESI? UCCISO DA QUALCUNO PER NON FARLO PARLARE”…
Chiara Valentini per "L'espresso" in edicola domani
Non è facile avvicinare Licia Rognini. Da quella notte di quasi quarant'anni
fa, quando suo marito, il ferroviere anarchico Pino Pinelli, era volato giù dal
quarto piano della Questura di Milano, ha sempre scelto di parlare pochissimo.
Ma il rumore che ancor prima di arrivare in libreria ha provocato il libro di
Adriano Sofri anticipato da "L'espresso" ("La notte che Pinelli", Sellerio) l'ha
convinta.
Di quelle vicende drammatiche che hanno cambiato per sempre la sua vita
d'altra parte Licia Pinelli non ha mai smesso di occuparsi. Attiva e lucidissima
a 81 anni compiuti (ma ne dimostra dieci di meno), nella sua casa dietro Porta
Romana a Milano sta scannerizzando la montagna degli atti dei vari procedimenti
giudiziari «perché la carta cominciava a disfarsi e invece la memoria deve
restare».
Ma va anche a scuola di yoga, si occupa dei quattro nipoti che ha avuto dalle
figlie Claudia e Silvia, bambine di 8 e 9 anni al momento della tragedia. E con
un'amica scrive inaspettatamente piccoli trattati di astrologia, quasi una
parentesi nella severità della sua vita.
Signora Licia, Sofri ha ricostruito puntigliosamente la vicenda di suo marito
sulle carte giudiziarie spiegando, queste sono le sue parole, «è il debito che
pago alla memoria di Pinelli». Pensa che ce ne fosse bisogno?
«Molto probabilmente è un lavoro utile. Tanti, da Camilla Cederna a Marcello
Del Bosco ad altri l'avevano fatto negli anni '70. Io stessa ne avevo parlato in
un libro scritto nell'82 con Piero Scaramucci che è da tempo introvabile. Ma
rivedere tutto quel che è successo con gli occhi di oggi, mostrando le
contraddizioni dei vari processi, può servire. La morte di mio marito, a 40 anni
di distanza, è una ferita aperta, un'ingiustizia che deve essere riparata».
Crede che sia possibile?
«Ancora oggi mi è difficile parlarne. Quel che ho vissuto mi ha fatto diventare
dura, diffidente. Non sopporto i bugiardi, gli ipocriti, le versioni di comodo.
Ma nonostante tutto spero che qualche margine ci sia ancora. Sono troppe le
bugie di quei processi, le contraddizioni fra Caizzi, il primo giudice che
archivia il fatto come morte accidentale, il giudice Amati che parla di suicidio
e D'Ambrosio che conclude per il "malore attivo". Non posso credere che questa
tragedia sia sepolta senza una verità».
Pensa che Sofri, che sta scontando una condanna come mandante
dell'omicidio del commissario Calabresi, sia la persona più adatta?
«Non ho mai creduto alla colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni, neanche
come ispiratori di quel delitto. Sofri non l'ho mai conosciuto di persona, ma
anni fa ho risposto a una sua lettera arrivata dal carcere appunto dicendogli
questo. Non so neanche se poi gliel'avevano recapitata».
Alla fine del suo libro è Sofri stesso, che pure si è sempre dichiarato
innocente, ad assumersi nuovamente una corresponsabilità morale di quell'omicidio
per la campagna di Lotta continua contro il commissario.
«È mia convinzione che i responsabili vadano cercati altrove. So che è
un'opinione poco condivisa, ma credo che Calabresi sia stato ammazzato perché
non potesse più parlare, come tanti altri che avevano avuto a che fare con la
strage di piazza Fontana».
Qualcuno ha osservato che dopo quarant'anni potrebbe trovare una
pacificazione con la famiglia Calabresi, incontrare quell'altra vedova.
«Potrebbe anche darsi».
Che cosa ha provato quando ha saputo della morte del commissario?
«Per me era stato come se mettessero una pietra sopra la ricerca della
verità. Ma a caldo avevo avuto anche una reazione emotiva, smarrimento e paura
per me e le mie figlie. Non ci potevo credere, non volevo affrontare un'altra
tragedia, essere bersagliata di nuovo dalle telefonate, dalle lettere anonime.
Pensi che proprio quel giorno, il 17 maggio 1972, a Milano si doveva presentare
a Palazzo Reale un quadro di Enzo Baj con la caduta di mio marito dalla finestra
della Questura. Ovviamente non se ne fece più niente».
In quegli anni era riuscita a ritrovare un po' di normalità quotidiana?
«Non è stato facile. Per sfuggire all'assedio della stampa ho dovuto cambiare
casa e mettere le bambine in una nuova scuola. Eravamo una famiglia di sole
donne, noi tre più mia madre e una gatta, che cercavano di far barriera contro
le ostilità esterne».
Che cosa l'aveva più colpita?
«C'era stato il tentativo di infangarmi per rendermi meno credibile. Il giudice
Caizzi, invece di cercare la verità mi aveva chiesto se avevo degli amanti. Mia
suocera poi era stata fermata per strada da uno sconosciuto che le aveva detto:
"Lo sa che sua nuora quella sera era con un altro uomo?"».
Ma aveva anche molte persone che la sostenevano. Pinelli era diventato un
simbolo.
«Sì, mi stavano vicino i vecchi amici e poi erano arrivate persone nuove, di
un ambiente diverso, come gli avvocati, come Camilla Cederna. Dopo la sua morte
è stata volutamente dimenticata, non le hanno perdonato di aver scritto con
tanta maestria di Pinelli e di piazza Fontana».
Dario Fo ha raccontato la storia di suo marito in un testo grottesco,
"Morte accidentale di un anarchico", che ha contribuito a fargli assegnare il
Nobel e che è ancor oggi uno dei lavori più rappresentati al mondo. Si è mai
chiesta perché?
«Perché non è una vicenda solo italiana. L'ingiustizia e gli abusi del
potere ci sono dappertutto».
Nel libro Sofri ricostruisce i tre giorni di suo marito in questura. Lei
che cosa ricorda?
«Fino alle ultime ore non ero molto preoccupata. Pino aveva telefonato più
volte per rassicurarmi, aveva una voce calma. Erano anche venuti i poliziotti a
frugare in casa e si erano accaniti su una delle tesi di laurea che battevo a
macchina per gli studenti della Cattolica. Credo parlasse di una rivolta contro
lo Stato Pontificio nelle Marche, ma loro l'avevano presa per un documento
sovversivo».
Da chi aveva saputo del volo dalla finestra?
«Da due giornalisti, arrivati all'una di notte. Mi ero precipitata a
chiamare in Questura, chiedendo di Calabresi. Me l'avevano passato subito.
Chiesi cos'era successo e perché non mi avevano avvertito. "Sa signora, abbiamo
molto da fare", era stata la risposta. La verità è che intanto il questore Guida
stava preparando la famosa conferenza stampa dove disse che Pinelli si era
ucciso perché schiacciato dalle prove. Il 28 dicembre l'avevo querelato per
diffamazione. Ma anche se intanto avevano dovuto ammettere che Pinelli non era
colpevole, Guida era stato assolto».
"Le ultime parole" è il titolo di uno dei capitoli del libro di Sofri.
Pensa che suo marito abbia cercato di dire qualcosa prima di morire?
«Non ne ho nessuna prova. Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella
stanza mia suocera, che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a
casa di amici. Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i
poliziotti. Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta».
Sofri conclude il suo lavoro rispondendo con tre semplici parole, «non lo
so», alla domanda su come è morto Pinelli. E lei cosa risponde?
«L'ho detto anche ai giudici che me l'hanno chiesto, ne sono così convinta
che è come se l'avessi visto con i miei occhi. L'hanno colpito, l'hanno creduto
morto e l'hanno fatto volare dalla finestra. Solo qualcuno che era in quella
stanza può raccontare la verità, non ho mai smesso di sperarlo».
Dagospia, 15 gennaio 2009