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Valerio Morucci: un brigatista canaglia testimone della storia Un paio di giorni fa il più importante quotidiano italiano ha titolato su cinque colonne: «Bloccata la lezione dell’ex Br Morucci». E voleva dire che il preside dell’Università La Sapienza di Roma aveva detto no a un incontro tra l’ex brigatista Valerio Morucci e un gruppo di studenti, incontro che era stato sollecitato da un professore dell’università romana. Sui giornali erano stati in molti a commentare che un ex assassino non aveva alcuna autorità per incontrare gli studenti all’università. Hanno rullato pesantemente i loro tamburi quanti sostengono che gli ex terroristi sono degli italiani a metà, gente che non ha il diritto di dire e pensare, e seppure siano tanti i libri firmati da ex terroristi che raccontano l’inferno degli “anni di piombo” e che ci aiutano a capirlo. Tra questi i libri di Morucci, di cui spiegherò fra poco com’è che sia divenuto uno dei miei amici più cari. E siccome sa che io non sono tenero nel giudizio su di loro brigatisti quando erano al centro dell’inferno, anzi quando erano stati loro a creare le dimensioni e la ferocia di quell’inferno, il più bello dei suoi libri, La peggio gioventù, Morucci me lo ha regalato con questa dedica: "All’amico offro qualche riflessione in più - o in meno, dipende - su quelle canaglie di brigatisti". Che al tempo del ratto di Aldo Moro (cui Morucci partecipò pesantemente) io li reputassi delle “canaglie” non ci piove. Ma neppure ci piove sul fatto che in Italia la pena di morte (e dunque la pena di morte civile) non esiste. Esistono dei colpevoli (altro che i terroristi come “idealisti” di cui ha straparlato una famosa attrice francese), esiste una colpa certa e individuata, esiste una pena. Morucci ha fatto 15 anni di galera, non esattamente un bicchiere d’acqua. Molto presto lui e l’allora sua compagna Adriana Faranda avviarono una rivisitazione e un ripensamento dei loro anni orrendi, quella “dissociazione” che ha reso più facile per la nostra società uscire dall’inferno, un atteggiamento da cui partì il nostro incontro e la nostra amicizia. Lo so bene che i cadaveri di poliziotti e magistrati assassinati dai Br sono rimasti corpi freddi e senza vita, e che eterno è il lutto dei loro cari. Ma tutto questo Morucci (e con lui tanti altri dissociati) lo sanno meglio di altri. E’ un clip installato per sempre nella loro memoria. Le poche volte che gliene ho chiesto, venivano fuori ricordi da brividi. Morucci non doveva fare alcuna “lezione” all’università, e ci mancherebbe altro. Doveva semplicemente parlare, da testimone a studenti che lo ascoltavano, di alcuni fatti recenti della nostra storia. Una testimonianza che io giudico preziosa e indispensabile, fatta da gente che non ha più un’oncia in comune con quello che loro erano al tempo della ferocia e dell’odio ideologico totale. A quegli ex terroristi si deve chiedere pudore e discrezione, questo sempre, non la bocca cucita. Il preside dell’Università di Roma ha detto che andrebbe ben volentieri ad ascoltare Morucci che parlasse del ratto di Moro innanzi alla targa di via Caetani dove venne parcheggiata la Renault rossa con il cadavere del presidente della Dc. Quell’auto l’aveva guidata Valerio, chi meglio di lui può raccontare i momenti di quell’orrore e di quella pazzia, ma anche il come e il perché la società politica del 1978 non volle pagare un soldo per la vita di Moro, come pure avviene ed è avvenuto in tutti gli scambi di prigionieri di questo mondo. E così via. Parlare parlare parlare. Capire capire capire. Altro che bocche sprangate.
Giampiero Mughini (Notizie Tiscali 5 gennaio 2009)
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