| Home | |
vuoto a perdere |
|
La storia in faccia Bisogna essere riconoscenti a quei giovani storici che, come Sergio Luzzatto, scendono dalla cattedra e intervengono sui giornali per tenere ostinatamente aperte pagine del passato recente italiano trattate spesso con troppa disinvoltura. E che dovrebbero essere affrontate fuori da quella «mezza luce» cui il nostro paese è così incline Non sono contraria a un uso pubblico, e fin politico, della storia. Meglio se fosse privato e asettico? La storia è l’esperienza delle generazioni che ci hanno preceduto, soffriamo più di voglia di ignorarle che di farne uso. Che può essere anche abuso, ma nessuno è più manipolabile di chi pensa che in nome del presente possiamo cavarcela da quel che gli sta alle spalle. Non che sia sempre gradevole ricevere la storia in faccia, una comunista rischia di essere seppellita sotto valanghe di merda. Ieri starnazzava Pansa e ieri l’altro il Libro nero del comunismo, ma meglio leggerli che ignorarli, perché pescano in acque torbide fra vero e falso, fatti e proporzioni. Viva dunque gli storici che li correggono, scendendo dalla cattedra sui giornali (e attenzione al movimento inverso, Montanelli ha fatto scuola e se l’è cavata tra le riverenze universali). Uno di questi giovani storici è Sergio Luzzatto, dei cui interventi (specie sul «Corriere della Sera» raccolti in Sangue d’Italia dalla manifestolibri) ha già parlato in queste pagine Sandro Portelli (sul «manifesto» del 7 dicembre). Vi ritorno perché quel fitto discorso mi ha confortato, e suscitato un problema e una obiezione. Usi e abusi della mezza luce Confortante è vedere dismessa da uno storico giovane la disinvoltura con la quale molti illustri padri della Repubblica hanno sdoganato negli anni Novanta i fascisti. È parso a un certo momento che bisognasse essere grati a Berlusconi perché riportava un pezzo del paese nella maggioranza e nel governo. Chi aveva più paura del fascismo? Nessuno. Era stato un pericolo ma era finito per sempre. Significava ignorare che se la storia non si ripete, il fascismo non è un incidente in Europa, risponde a pulsioni profonde e ha antiche radici nella cultura - che è un errore considerare sempre d’accatto - della destra. Si aggiunga che l’Italia non ha fatto la durissima terapia della Germania, male accettata dalla prima generazione postbellica ma riproposta con forza dalla seconda. Non ci siamo sognati di costruire accanto al Vittoriale un monumento alla Shoah come Berlino accanto alla porta di Brandeburgo, abbiamo riammesso facilmente nell’«arco costituzionale» i nostalgici della fiamma tricolore su bara mentre i nostalgici della svastica sembrano fuori per un pezzo da quello tedesco. Così i nostri ex fascisti, differentemente dagli ex comunisti, non rinnegano il loro passato, lo selezionano. Il loro leader e presidente della Camera, Gianfranco Fini ha definito Mussolini un grande statista e ha condannato senza mezzi termini le leggi razziali del 1938. Ed è andato in Israele a visitare il memoriale della Shoah, e mi è parso con emozione. Del resto è nato troppo tardi per esserne stato coinvolto. Qualche giorno fa ha sottolineato tuttavia che non è stato il fascismo a inventare l’antisemitismo, ma la tradizione cristiana. Vero. Ha aggiunto che le leggi razziali non suscitarono reazioni di popolo né nella chiesa cattolica. Vero, ma su questo avrebbe fatto meglio a tacere: quali possibilità di reazione, che non si limitassero a nascondere qualche amico ebreo in soffitta, c’erano nel 1938 nello stato di polizia del grande statista? Anche il Vaticano, che ha protestato, avrebbe fatto meglio a tacere. Ha aperto le sue porte a qualche ebreo che chiedeva asilo - come dopo il 1945 a personaggi nazisti - ma Pio XII ha rifiutato di pronunciare una parola che forse avrebbe fermato il raid tedesco dell’ottobre 1943 nell’ex ghetto di Roma, e pensare che gli era stato chiesto dall’ambasciatore tedesco presso la santa sede. Nondimeno, se la chiesa ha maledetto per secoli il popolo deicida, non ne ha dedotto che gli ebrei erano sottouomini da sterminare. E il nostro fascismo li ha volonterosamente deportati verso i lager del Reich non senza ammazzarne più d’uno per strada. Tutta intera, la storia è un tessuto difficile. È la mezza luce, cui il nostro paese è incline e della quale Renzo de Felice è stato un attentissimo campione, che della mezza storia usa ed abusa. Ed è questo che rende loffie le proposte di riconciliazione, di Violante e non solo. La pagina non è chiusa - chiari e scuri della resistenza compresi - e vanno dunque ringraziati i Luzzatto, per altri aspetti i D’Orsi e pochi altri che la tengono ostinatamente aperta. Un partito-giraffa Il problema riguarda Togliatti. Ridotta all’osso - e lasciando da parte le psicologie della persona - sarebbe stato possibile costruire un grande partito comunista e democratico nel 1945 rompendo con l’Urss? Dico «comunista e democratico», per bizzarro che possa sembrare oggi, perché questo è stato il Pci, così è stato costruito e per questo ha agito tanto in profondità sulla scena del paese. A fare storia sul serio, non credo si possa scappare da questa domanda. Si presentò come «comunista e democratico» perché né i socialisti, né le loro poco gloriose socialdemocrazie continentali, né gli uomini di Giustizia e Libertà e poi Partito d’Azione avevano nel 1945 la forza sufficiente per imprimere uno scatto decisivo al paese, una sorta di palingenesi sociale e culturale di massa. E a quel tempo lo riconoscevano. Erano contrari ai comunisti tutti, nel senso che non ne condividevano l’impianto più o meno classista, e tanto meno la tesi della dittatura del proletariato, criticavano il modello dell’Urss, ma sapevano benissimo che la leva comunista della resistenza, con cui ebbero ad azzuffarsi, non solo non si voleva ma non era il partito bolscevico, neppure avrebbe potuto esserlo, era una curiosa formazione e per metà classista, uno strano animale - la «giraffa», ebbe a dire Togliatti. Tengo per fermo, e vorrei che l’Istituto Gramsci lo avesse esaminato più a fondo, che Togliatti abbia considerato non una disgrazia ma una occasione il fatto di trovarsi all’ovest invece che all’est e volesse non per astuzia quella Costituzione. Penso che sia stato sincero il suo discorso, sul filo del rasoio, contro la duplicità e il tentativo, tutto a zig zag, del 1956-57. Si sarebbe potuto fare un grande partito popolare denunciando l’Urss per schierarsi con Churchill a Fulton e con gli Stati Uniti che avevano gettato le due atomiche su Hiroshima e Nagasaki non solo né specialmente per finire il Giappone? Non credo. Allora si ricordava ancora che l’Urss aveva avuto più di 22 milioni di morti e gli Usa erano entrati in guerra quando la Wehrmacht era bloccata a Stalingrado. Penso che il Pci non sia stato meno circolante e aperto alla società dell’attuale Partito democratico, meno monarchico e più severo e pulito. Penso che il memoriale di Yalta del 1964 sia stato ben più secco e grave del tardivo «è venuto a fine il movimento propulsivo» di Berlinguer nel 1981. Penso che cadeva nel breve periodo nel quale né Bretton Woods era finito, né la crisi dell’energia aperta, né Reagan e Thatcher insediati, la confusa ma grande decolonizzazione in corso e il movimento comunista non del tutto ossificato. Per tutti gli anni ’60 il mondo oscilla prima di attestarsi sull’ultraliberismo. Il Pci inizia il suo declino, anche se non elettorale, allora. Quando finisce il dopoguerra, vacilla la guerra fredda e una possibilità di terzo polo è stata tentata. Non pretendo che sia un’ipotesi ferrea, ma certo meno approssimativa di quella che interpreta il Pci tutto e solo nel rapporto con l’Urss, e dopo con il crollo dell’Urss. Da quel che fu in Italia e da quel che produsse nell’idea di sé del paese non uscì un partito che avrebbe retto alle trasformazioni degli anni ’70 e ’80, per quel che era e anche per quel che non riuscì ad essere, ma diverso da quella storpiatura della quale tanti ex comunisti si vergognano, poveracci e un po’ cialtroni. Sfoggio di buone coscienze L’obiezione riguarda il terrorismo. Intanto non li chiamerei «terroristi» - sovversivi, gruppi armati, omicidi. Non presero a modello Robespierre e il Terrore, che fu un metodo di governo. E neanche i narodniki, che gettavano bombe nel mucchio per terrorizzare; questo i brigatisti non fecero mai, a differenza dei fascisti e le loro stragi. Se qualcuno delle Brigate Rosse ebbe in mente la resistenza (il «gruppo reggiano dell’appartamento») non furono tutti né i più, se ci fu un modello fu quello latinoamericano. Non erano carnefici efferati, come si sentono in obbligo di definirli anche Luzzatto o de Luna nell’introdurre l’interessante La piuma e la montagna (manifestolibri 2008). Le Brigate Rosse non uccisero per uccidere, né per sfregio (eccezion fatta per Roberto Peci, e poi ci furono crudeltà in carcere fra alcuni di loro o della stessa parte, nella disperazione e disfatta). Il loro fu un tentativo sanguinoso di insurrezione sbagliato, prima che dal punto di vista morale, da quello politico. Per dirla tutta, mi è difficile applicare un giudizio «morale» in un universo e in un tempo nel quale il monopolio statale della violenza è stato esercitato con tanta ottusa brutalità. E con tale sfoggio di buone coscienze. In una temperie culturale per cui sarebbe violenza colpire direttamente e fisicamente qualcuno, mentre non lo sarebbe far crepare di fame e di sete decine di milioni di persone, stroncare anonimamente la vita di milioni di altre - come sono ladri due terzi di coloro che riempiono le galere e non chi ha sottratto le smisurate somme nella speculazione di questi mesi. Non giustifico né l’uccidere né il rubare, quale che ne sia il movente, intendo mantenere un criterio per cui sia possibile esaminare gli anni ’70 senza prima farsi frugare nell’anima, come all’aeroporto nella giacca, per garantire che non sei una incline alle armi. Non mi pare meno grave che le Brigate Rosse siano partite dall’idea che uno stato moderno possa essere colpito colpendo un suo esponente, come se fosse un ex impero e non tessuto fittissimo di rapporti e interessi che si tengono. È questo che ha reso senza senso quelle morti, date e ricevute. Quindi crudeli, una colpa. Ma non sordida, politica. E non per questo meno gravida di conseguenza. Non però quelle che si dicono. Se Moro non fosse stato sequestrato e ucciso, non avrebbe fatto il governo con il Pci, e Berlinguer sarebbe andato incontro allo stesso scacco. Molto sarebbe cambiato, ma non la forma di stato e di governo. Le istituzioni non furono mai in pericolo per causa dei 120 regolari che le Br ebbero al loro punto massimo. La degenerazione covava ed è avvenuta su altro. Anche questo sarebbe da studiare e discutere. Dovremmo permetterci di farlo. di Rossana Rossanda (Bellaciao.org, mercoledì 24 Dicembre 2008)
|