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Il ’77 aveva segnato l’apice dell’escalation di violenza che, a partire dal ’68, coinvolse decine di migliaia di giovani che sognavano di contrapporsi allo Stato per proporre una società diversa, migliore, dal loro punto di vista. Erano maturi i tempi per l’innalzamento del livello dello scontro, proprio come quando il primo giugno del 1432 la rivalità tra senesi e fiorentini si apprestava a sfociare nella battaglia di san Romano. E a un certo punto, il 16 marzo del ’78 avvenne il fattaccio, si compì l’atto di guerra, fu fatto ciò che molti non osavano immaginare, ciò che non avrebbe consentito nessun “passo indietro”. Non si può certamente dire che all’epoca lo Stato fosse talmente forte da far pesare la propria superiorità sulla controparte. Allo stesso modo, nel 1432, i fiorentini non vantavano una schiacciante supremazia nei confronti dei loro avversari, e la battaglia fu vera, dura e violenta come tutte le battaglie. Quella battaglia fu vinta da Niccolò da Tolentino e Cosimo de’ Medici, oltre vent’anni dopo, volle immortalare l’evento e chiese al pittore di corte, Paolo Uccello, di raccontare le gesta dell’esercito fiorentino. Paolo Uccello realizzò tre dipinti, il primo dei quali rappresenta l’inizio della battaglia. Qui tutto si articola intorno alla figura del capitano vittorioso: la cavalleria è concentrata alle sue spalle, i trombettieri avviano l’assalto e lo scontro comincia. Sullo sfondo due cavalieri si allontanano per chiamare i rinforzi di Micheletto da Cotignola, mentre in mezzo ai campi, alcune figure si stanno sfidando. L’avvenimento offre all’artista l’occasione per evocare un fantastico mondo cavalleresco attraverso molteplici elementi del dipinto: la siepe di rose e gli alberi d’arancio che si profilano dietro i combattenti, gli arabeschi disegnati dal fluttuare degli stendardi. Lo spazio, pretesto per la ricerca prospettica fino all’irreale, è misurato in maniera geometrica dalle lance spezzate che segnano sul terreno un reticolo ortogonale; dagli scorci dei cavalli: quello impennato, quello caduto; dagli uomini chiusi entro fastose armature da parata, come manichini metafisici e nessun accenno al sangue e alla morte truculenta. Oggetti di forme irregolari, quegli stessi che l’artista, privandosi del sonno, studiava di notte da angoli diversi, sono qui mostrati di scorcio: un elmo, frammenti di armature. Il pezzo forte è il copricapo di Niccolò da Tolentino, voluminoso, rotondo e ottagonale allo stesso tempo, ma il maggior vanto dell’artista è probabilmente la figura del guerriero caduto, steso a terra, la cui rappresentazione prospettica dovette presentare molte difficoltà. Tanto i cavalli quanto gli uomini sono un po’ legnosi, quasi giocattoli, ma se ci chiediamo perché mai questi cavalli ci ricordino quelli a dondolo e perché l’intera scena rievochi una giostra, faremo una scoperta curiosa. È proprio perché l’artista voleva che le sue figure campeggiassero nello spazio come se fossero intagliate anziché dipinte. In questa sua concezione della guerra come spettacolo, Paolo Uccello sottace i fatti: non vi sono riferimenti alla violenza dello scontro, al sangue, all’incertezza del verdetto. Non è rappresentata la realtà ma solo la spettacolarizzazione della tragedia (la battaglia), lo sfarzo e l’eleganza che contraddistingue i vincitori. A oltre cinque secoli di distanza, il contesto sembra riproporsi con il Caso Moro: chi ha vinto ha voluto dimenticare la tragedia per lasciare spazio allo spettacolo, alle strumentalizzazioni, alle divisioni tra due schieramenti ancora in lotta tra di loro che, invece di parlare e confrontarsi sui fatti e sul perché essi avvennero, preferiscono nascondere la realtà dietro un ampio campionario di effetti speciali. Si ringrazia la Prof.ssa Lidia Orrico per la consulenza in materia di Storia dell'Arte
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