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Per Moro non potevamo trattare Reagiscono in maniera diversa, con parole differenti. Ma la sostanza è la stessa. E non modifica in nulla la linea che entrambi hanno sempre seguito in questi anni. Giulio Andreotti e Francesco Cossiga sono nuovamente chiamati a confrontarsi con il «caso Moro», con quella posizione di fermezza che non salvò lo statista democristiano dalla sentenza di morte pronunciata dai brigatisti ed eseguita il 9 maggio del 1978. L' occasione è «Anni Settanta», l' ultimo libro di Giovanni Moro, il figlio del presidente, anticipato ieri dal Corriere della Sera, che contiene giudizi durissimi sulle loro scelte di allora, sui ruoli che ricoprivano all' epoca, su quelli avuti in seguito. E che muove da una considerazione: «Tutti i sequestri organizzati da gruppi terroristi prima e dopo la vicenda Moro sono stati risolti in uno dei due modi che invece furono evitati nel caso Moro: o attraverso la trattativa o con la liberazione dell' ostaggio». Lui invece fu condannato «da una non decisione». Cossiga è sprezzante: «Ho letto di un indegno libello scritto dal figlio di Aldo Moro contro il Vaticano, Giulio Andreotti e me. Per rispetto alla figura morale e politica del padre non comprerò né leggerò quel libro. Certo molto meglio sarebbe stato se, invece di fare il "figlio del martire", Giovanni Moro si fosse messo a lavorare così come hanno fatto i ragazzi e le ragazze figli dei carabinieri e dei poliziotti che hanno sacrificato la loro vita per suo padre. Come è vero che non necessariamente i figli ereditano qualcosa dei loro padri. In questo caso Giovanni Moro ha ereditato dal padre soltanto il cognome; che certo non porta con molto onore». Andreotti è più accomodante, ma fermo nel rivendicare le decisioni prese durante quei 55 giorni di sequestro: «Capisco il piano sentimentale e mi dispiace, ma noi non potevamo fare altro. I brigatisti volevano il riconoscimento da parte dello Stato e questo era inaccettabile». Ricorda come all' interno della famiglia Moro qualcuno non condivida l' opinione di Giovanni: «So che Maria Fida ha un atteggiamento diverso, ha mantenuto un rapporto...». Poi ripete quello che già ha detto in questi anni: «Trattare era impossibile, ci sarebbe stata la sollevazione dei familiari delle altre vittime. Non potevamo, non ci era consentito». Il nodo è proprio questo. Come aveva già fatto in passato, anche nel suo libro Giovanni Moro accusa Andreotti di aver «mentito spudoratamente» quando disse che «una delle vedove di via Fani aveva minacciato di darsi fuoco in piazza se si fossero aperte qualsivoglia trattative» senza mai indicarla «perché quella vedova non esisteva». E di Cossiga, che all' epoca era ministro dell' Interno e si dimise il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di suo padre, dice: «In una democrazia normale avrebbe probabilmente passato il resto della sua vita a coltivare rose o a scrivere libri di memorie per riscattare la sua immagine. In Italia è stato invece subito nominato primo ministro per due volte, presidente del Senato per due volte e infine presidente della Repubblica. Difficile non sentire in tutto ciò il sapore di un premio, naturalmente di consolazione». L' ex capo dello Stato, ora senatore a vita, non si sottrae quando gli si chiede di rispondere a questo giudizio. E il tono si fa ancora più tagliente: «È un poveretto». Ironicamente aggiunge: «Questo libro piacerà molto ai figli e alle mogli di quegli uomini che facevano la scorta a suo padre». Respinge invece l' idea che queste considerazioni siano frutto di quel dolore che segna la vita di chi ha avuto un familiare ucciso dai terroristi: «Lui è segnato dal contratto che ha firmato con il suo editore». Affermazioni che rischiano di alimentare altre tensioni, ulteriori polemiche. 15 ottobre 2007 - Corriere della Sera
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